Tutti i cinefili, che sono stati ragazzi negli anni Settanta, e hanno visto quei film americani di quei registi, lo hanno ficcato nel Pantheon dei loro eroi. Caratterista – ma si dice ancora così? – legato a piccole parti, a personaggi almeno in apparenza secondari, lo abbiamo visto per un attimo sullo schermo e abbiamo pensato che lui ha il cinema (americano) in faccia, nelle ossa e nell’anima, che lui è il cinema – certo, ci siamo fatti prendere dalla retorica, ma poi, tra i linguaggi del mondo, ce n’è uno meno retorico del cinema?
Harry Dean Stanton vanta 250 film girati da comprimario. E quando una volta gli può capitare di take the lead, di fare il protagonista, nicchia, si mette in dubbio o forse soltanto non desidera portarsi addosso il dramma del silenzioso Travis di Paris,Texas. Rifiuterà per un motivo analogo la parte che andrà a Dennis Hopper in Blue Velvet dell’amico David Lynch, con cui ha girato ben sei volte, l’ultima in Twin Peaks 2. Alla fine, però, in Paris,Texas Harry Dean Stanton ci recita da par suo, un passo dopo l’altro, impolverato, stralunato: a convincerlo non è Wim Wenders (il più americano dei registi europei) ma lo sceneggiatore della pellicola, Sam Shepard, che secondo la leggenda, tra impegni vari e stop di set per mancanza di fondi, finirà a dettare a Wenders per telefono le battute di Travis nel peep show…
Bene. Ciò per dire che è disponibile su Netflix il bellissimo docu Harry Dean Stanton: Partly Fiction firmato dalla regista svizzera Sophia Huber, già nota per un lavoro sulla Blue Notes Records. Il docu sull’attore di West Irvine, Kentucky, classe 1926, è stato girato nel 2012, dunque quando Harry Dean Stanton ha 84 anni – morirà, da vivo, come ha sempre vissuto, a 91. Harry Dean Stanton si racconta con poche e essenziali parole, bevendo rum e fumando a catena, chiacchierando insieme a eccellenti sodali – Lynch lo intervista addirittura e ne spiega la caratteristica d’attore: Harry Dean Stanton è sempre nella battuta, non anticipa mai quella seguente – intanto scorrono spezzoni di tanti celebri film.
Rivedere Travis muto che cammina nel deserto nel film di Wenders resta un’emozione – e non parliamo del già citato e straziante incontro con Nastassja Kinski. Ma è emozionante anche – ed è brava Huber con la macchina da presa – intravedere il viso affilato del vecchio Harry Dean Stanton in chiaroscuro all’interno di una limousine o seguire il magrissimo corpo dell’attore in lento cammino in una notte a Santa Monica, quasi che la vitalità indomita dell’uomo, la sua ironia puntuta, le lunghe pause (quanto studiate o quanto usate per riprendere fiato tra una cicca e l’altra?), siano una piccola luce preziosa e fragile che fa capolino dal buio e dal buio vada protetta.
Il docu raccoglie – in primo piano e spesso in un ben inciso bianco e nero – una serie di performance canore di Harry Dean Stanton e ha pure permesso la nascita di un disco di evergreen (l’album Partly Fiction si trova anche sulle piattaforme di streaming), tra cui spicca una dolente Everybody’s Talkin’, “it’s an heroin song” precisa l’attore, prima di eseguirla. Harry Dean Stanton, che ama le canzoni popolari e quelle messicane per il loro pathos innocente, canta benissimo, pur se con un filo di voce, e lo fa da sempre: viene riproposta, tra le altre, una memorabile sequenza che lo vede alla chitarra in Cold Man Luke (Nick mano fredda), girato con Paul Newman.
Il docu immortala Harry Dean Stanton al termine di una vita di libertà, senza nessuna moglie ma con tante donne amate, e forse con dei figli (Lynch lo stuzzica e lo incita a parlare senza troppo successo in proposito), di sicuro con una miriade di avventure e di sodalizi coltivati nel tempo, con colleghi o baristi, stelle di Hollywood o gente comune, che rendono indimenticabile una carriera e un percorso. Harry Dean Stanton racconta la movimentata convivenza con Jack Nicholson ai tempi di Easy Rider, le telefonate chilometriche con l’ultimo Brando (“il più grande”, come lui e forse un gradino sopra c’è solo Montgomery Clift), la liason con la punk Debbie Harry dei Blondie che senza conoscerlo gli dedica un pezzo, I Want That Man (“I wanna dance with Harry Dean / Drive through Texas in a black limousine”), i palcoscenici divisi con il pard Kris Kristofferson, i disastri da set combinati con Bob Dylan, ai tempi di Pat Garrett & Billy the Kid…
C’è ovunque, e compare in ogni ammicco di Harry Dean Stanton, l’idea che per una volta ci si possa mostrare nudi e crudi, senza presunzione, senza sofisticato understatement o cinismo da prepotenti, come quando l’attore ammette di essere, “proprio come tutti”, un womanizer, o di aver sofferto l’inferno per Rebecca De Mornay che lo mollò per Tom Cruise, ai tempi di Risky Business.
Bene. Consiglio di vedere il docu insieme a Lucky da poco disponibile sulla piattaforma di cinema MUBI. È l’ultimo (o penultimo) film di Harry Dean Stanton. Firmato da John Carroll Lynch, gli offre la seconda storia da protagonista: l’estremo viaggio di un novantenne che ha ancora la chance di scoprire qualcosa di se stesso. Harry Dean Stanton muore per cause naturali (così si legge su wiki) al Cedars Sinai di Los Angeles nel settembre del 2017, ma vivrà sempre, un po’ di sguincio, forse un mezzo passo indietro, con una smorfia d’intesa sul lungo viso ossuto, in un’enigmatica e a tratti felice notte hollywoodiana, finché esisterà al mondo un singolo fotogramma di celluloide.