Realizzato sulle ceneri dell’ex Cinema Eden (già Casa del Fascio e Casa del Popolo), l’Auditorium Enzo Ferrari è considerato dalla Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio per le province di Bologna, Modena, Reggio Emilia e Ferrara, tra i beni architettonici di maggior rilievo a Maranello, recita il sito teatro.it consultato per l’occasione. Questo palazzetto anni Venti somiglia proprio al cinema di Amarcord, e pazienza se quello l’aveva costruito Danilo Donati in uno studio di Cinecittà, comunque la sala buia dove Titta cercava di sedersi vicino alla Gradisca in tutto il mondo resta il cinema italiano per antonomasia, fermo nel tempo e nella memoria. «Ho preso l’ultimo, per oggi sono esauriti, dovrete tornare domani»: a Maranello, la prima persona che mi rivolge la parola, uscita dall’Auditorium con stretto in mano il biglietto del film di Michael Mann, è un signore anziano, accento del Sud. «Abbiamo l’anteprima di tutta l’Italia», dice fiero. Sarà per lo sguardo sognante, ma tutto d’un tratto è come l’abbia detto con cadenza emiliana doc, quella dello zio Patacca pieno di vanagloria per la straniera che le aveva “concesso l’intimità posteriore”, per intenderci. La Ferrari è entrata in lui, e il rosso già si presenta allegro in questa cittadina che è un consapevole e orgoglioso Truman Show, dove ciascuno interpreta lieve la parte di chi vive dentro a una favola.
Nel film di Mann, tra l’altro, gli accenti edificano una buffa babele: è girato in inglese, ma il pubblico internazionale vuole profumo d’Italia, quindi i Mister e le Misses sono sempre signore e signora; ovviamente Ferrari è Il Commendatore e gli attori italiani non si sforzano neppure per un istante di mascherare la loro nazionalità. Anche Penélope Cruz ha la solita marcata cadenza spagnola, ma su di lei, bravissima, torneremo più avanti.
Intanto a Maranello, sulla provinciale, vicino alla fabbrica che ha conservato intatto l’ingresso storico, camminano gli omini rossi. Il giubbotto, gli zainetti, i cappellini, tutti rossi con qualcosa di giallo, lo stemma della Scuderia Ferrari. Neofita, per qualche minuto immagino siano tifosi che omaggiano la loro grande passione anche così, come al Gran Premio, vestendosi con il colore dell’auto del cuore. Invece sono gli operai Ferrari, i 4.000 impiegati che lavorano a questi oggetti del desiderio.
La guida che ci accompagna sulla navetta in visita alla fabbrica, lei sì inglese perfetto, accento Oxford, spiega che vengono da 138 paesi diversi. Operai, dirigenti, amministrativi, ingegneri camminano verso la mensa, è l’ora della pausa pranzo. L’edificio dove si mangia è avveniristico, tutto vetro e rotondità, l’ha progettato l’architetto Marco Visconti, che insieme ad altri archistar – Renzo Piano, Massimiliano Fuksas, Luigi Sturchio – ha concretizzato il progetto “Formula Uomo”, ovvero sicurezza, ecologia e vivibilità per i dipendenti e le loro famiglie. Olivetti, insomma.
Fuori dal finestrino della navetta, sbirciamo un’atmosfera serena, la guida sottolinea l’età media dei dipendenti, sono giovani, si vede dal passo veloce, dalle chiacchiere rilassate, dai sorrisi. Neppure fanno più caso a noi che andiamo a vederli come allo zoo, si saranno abituati. E come in ogni gita riuscita, c’è anche il colpo di scena: “Guardate, c’è la Purosangue dell’ingegner Piero, vuol dire che oggi è in ufficio”. Le nostre teste si girano insieme verso un suv Ferrari che il signor Piero ha personalizzato colorandolo di Verde Dora, la tinta storica della Ferrari 400 Superamerica di suo padre, il Drake. Che ovviamente negli anni Cinquanta scherzava, quando diceva ai giornalisti: “Perché non guido una Ferrari? Non posso permettermela”.
Di scherzoso, invece, nel film di Mann c’è davvero poco. L’uomo che ama i polar francesi, l’uomo del livido Heat-La sfida, con De Niro e Pacino, ha girato un film scuro, che odora di morte, e in un certo senso è proprio questo nero, in forte contrasto con l’amato rosso Ferrari, a farsi perdonare l’eccesso di romanzo popolare che è sempre dietro l’angolo quando un regista anglosassone viaggia in Italia. Si teme House of Gucci, ma per fortuna ci si ritrova nel libretto di un’opera lirica, con tutti i pregi e i difetti del caso.
Mann, che progettava questo film da vent’anni, si ferma nel 1957, l’anno della fatidica Mille Miglia vinta a prezzo dell’incidente che uccise il pilota Alfonso de Portago, all’epoca boyfriend dell’attrice Linda Christian, e nel quale morirono anche nove tifosi – cinque erano bambini – assiepati pieni di sogni lungo una strada di Guidizzolo, in provincia di Mantova. Le immagini della tragedia sono splatter, ma hanno un senso, il senso della storia del progresso che esige un macabro sacrificio.
Il 1957 è anche l’anno in cui Enzo Ferrari inizia a trattare per un accordo con Gianni Agnelli; l’anno in cui Mann immagina che Laura Garello (Penélope Cruz), la moglie di Enzo (Adam Driver), scopra la vita parallela del marito con Lina Lardi (Shailene Woodley). Cruz da sola vale il film: sì, il regista paga pegno alla caricatura, la fa camminare un po’ caracollante, deve avere 57 anni, il corpo di una donna italiana di quell’epoca, e in una scena le mette persino in mano una sportina di paglia da massaia, dalla quale fa capolino un cespo di sedano, tanto che ti chiedi come sia possibile che una signora a quel punto benestante, con la cameriera che serve il caffè, torni dal mercato dove ha fatto la spesa di persona. Ma sono dettagli, magari succedeva davvero così, del resto Garello i cordoni della borsa, non solo per comprare da mangiare, li teneva sul serio. Laura, sartina piemontese, grande amore di Enzo, ma anche soldatessa implacabile del loro esercito di coppia che aveva un solo scopo comune: vincere la guerra dei motori.
Garello supportò Ferrari fin da quando era solo uno spiantato orfano di guerra, a Torino in cerca di un posto alla Fiat. Cruz si mangia il film, si mangia persino il protagonista, un Adam Driver pure intenso, efficace nonostante la buffa gommapiuma nei pantaloni a vita alta che dovrebbe simulare pinguetudine, ma ci vuol altro per battere l’attrice spagnola, cui basta un solo primissimo piano in visita alla tomba del figlio Dino, con enigmatico sorriso misto a pianto, per doppiare chiunque, sul circuito di questo film. Cruz si mangia soprattutto Shailene Woodley, tanto più che è la prima, per paradosso, a essere protagonista di una scena di sesso da amanti, un furibondo amplesso sul tavolo della cucina, di quelli che capitano all’improvviso anche quando tutto è finito, eppure un’antica scintilla ritorna. Woodley, nel film l’amante Lina, madre del figlio illegittimo Piero, sembra invece una moglie. Intelligente, paziente, carezze tenere, ristoratrici e il cognome Ferrari per il suo piccino, ottenuto solo quando Laura muore. Del resto è noto che il Drake, uomo d’altri tempi, non si fermò neppure lì, e con le donne aveva un rapporto allora comune, ma che oggi farebbe inorridire.
Il regista è stato completamente sedotto soprattutto dal funereo matrimonio tra Enzo e Laura, ferito a morte dalla perdita dell’amatissimo figlio Dino, brillante pioniere di ingegneria, ma affetto da distrofia muscolare. In una scena ad alta tensione, Laura accusa il marito, già descritto dai giornalisti come un Saturno che divora i suoi piloti-figli mandandoli a morire, di non aver salvato Dino. Ferrari è sconvolto, cita le innumerevoli cure che gli aveva prodigato. Risponde al vero che gli misurasse ogni giorno i valori del sangue e abbia tentato in ogni modo di preservarne la salute precaria: “Mi ha deluso l’impotenza a difendere la vita di mio figlio, che mi è stato strappato, giorno dopo giorno, per 24 anni”, scrisse anni dopo. La morte aleggia sul film, e anche quella di Laura è preconizzata dal patto di rispettare la memoria di Dino non concedendo il cognome a Piero fino alla fine dei suoi giorni. «Guai per questa donna! Tanto che quando lei morì, Ferrari andò in grave crisi depressiva, da trattare con farmaci», ha raccontato il medico di famiglia, Cesare Carani, nel libro Enzo e Laura Ferrari, storia di due grandi pazienti (Artioli Editore).
Torniamo a Maranello: si passa anche dal circuito di Fiorano, dove i piloti provavano e riprovavano le loro auto, e poi si arriva a Modena, meravigliosa cittadina con il Museo Enzo Ferrari, proprio in via Paolo Ferrari, dove Enzo nacque nel 1898. Una famigliola si scatta il selfie al gran completo: nonna, mamma con in braccio una neonata, papà e piccino, tutti al settimo cielo, davanti al modello da Formula 1 del 2003, quello di Schumi. Gente di tutte le nazionalità si aggira con occhi che tornano bambini, parte all’improvviso un filmato sulla vita di Ferrari, con il Nessun dorma della Turandot, cantata da Big Luciano, ovviamente. Se è vero che le avventure da pionieri esigono sempre un sacrificio, che sacrificio sia, sussurra la Storia. Immagini in bianco e nero, fiocchi di neve – o forse saranno le “manine” di Fellini? – sembrano cadere su tutti noi, che restiamo col naso all’insù.
(Credit: Ferrari HQ & Factory at Maranello Italy Main Entrance by mangopulp2008 is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.)