Recensione un po’ anomala. E poi io non sono un tipo da recensioni di libri… perché mi piace proprio “l’oggetto libro”, le pagine da sfogliare mi fanno sentire bene. Però quando ho letto Il romanzo del giornalismo italiano di Giovanni Valentini (che ha un curriculum da paura: tra i fondatori e vicedirettore di Repubblica, direttore dell’Europeo e dell’Espresso, vincitore del premio Saint Vincent di giornalismo e molto altro) un po’ ci sono rimasta male.
Questione di aspettative probabilmente. Nel libro, edito da La nave di Teseo, Valentini traccia “la lunga avventura del giornalismo italiano in prima persona, una storia iniziata con carta e macchina da scrivere, rivoluzionata dal web, e oggi destinata a combattere le nuove fide del digitale. Da Eugenio Scalfari a Carlo Caracciolo, da Umberto Eco a Carlo De Benedetti; da Antonio Padellaro a Marco Travaglio, Il romanzo del giornalismo italiano racconta cinquant’anni di storia nazionale vissuti in prima persona dall’autore. Sullo sfondo, le vicende più oscure che hanno attraversato il nostro Paese: il delitto Moro, la P2, il caso Tortora, l’uccisione di Marta Russo, Gladio e la presidenza di Francesco Cossiga, l’avvento e la fine di Silvio Berlusconi”. Così la presentazione del volume.
È vero, c’è tutto. Però tutto di corsa, inevitabilmente superficiale. D’altronde come si può raccontare mezzo secolo in 330 pagine? E allora ecco alternarsi passi importanti a frecciate polemiche (alcune decisamente cattive) fatte – certamente con toni garbati però… – ad alcuni (parecchi) tra i suoi colleghi più importanti. Si può riderne (a me hanno lasciato perplessa) e comunque non aggiungono molto alla storia del giornalismo. Anche se bene riflettono l’aria che non sempre ma spesso si respira nelle redazioni.
Con ciò, chi ha iniziato il mestiere un po’ di decenni fa, ritrova in Il romanzo del giornalismo italiano l’entusiasmo, la caccia allo scoop, i pezzi dettati al telefono, la voglia di dare un “buco” ai concorrenti, il tormento di quelli che, lavorando in un periodico, dovevano chiudere in tipografia un giornale che sarebbe uscito dopo il risultato di un’elezione, o di una sentenza del processo, o di un fatto di cronaca eclatante.
Un passo dedicato all’editoria locale ne sottolinea l’importanza (e a me colpito, perché ci ho lavorato per dieci anni). Scrive Valentini, che ha anche diretto i quotidiani veneti del gruppo Caracciolo, che quella dei giornali locali “è davvero una scuola professionale che vale per tutta la vita. Sono giornali d’intervento e al contempo di servizio, più vicini agli interessi e alle esigenze dei propri lettori”. Già, e viene da chiedersi con amarezza perché oggi quotidiani importanti stiamo valutando di chiudere le redazioni locali.
Così come viene da riflettere su quello che è diventato il mestiere di cronista, sulle responsabilità di chi porta le notizie ai lettori, con un interrogativo sospeso sul futuro della professione, tra social network e intelligenza artificiale: faremo davvero a meno dei giornalisti? Io mi auguro di no, ma temo sarà così.
E allora, vale la pena leggere Il romanzo del giornalismo italiano? Assolutamente sì. Anche solo per contestarlo. E per tornare per qualche ora in un mondo che non esiste più.
- Nella foto in alto, un’immagine di Tutti gli uomini del presidente (1976) interpretato da Dustin Hoffman e Robert Redford. Il film ripercorre l’inchiesta del Washington Post che nel 1974 portò allo scandalo Watergate e alle dimissioni di Richard Nixon da presidente degli Stati Uniti.