Cosa sarà. Cosa sarà che ogni tanto, così, d’emblée, fa apparire sul mio ignaro computer qualche accalorata ragazza desnuda ammiccante a far intendere chissà quali paradisi erotici: sarà perché certe volte clicco per sfinimento “Ok” su “Accetto tutti i cookies”… o per qualche algoritmo difettoso che fa dei calcoli sbagliati?. Non lo so. Sta di fatto che tutta questa esposizione non richiesta di seni e sederi, tipo vetrina di un postal market elettronico di sesso a domicilio, mi fa venire in mente un film di Luciano Emmer (Milano 1918-Roma 2009), memorabile regista i cui film, da Ferie d’agosto a Parigi è sempre Parigi a Terza Liceo (e anche – anche!, anche! – i preziosi documentari sull’Arte), si guardano ancora oggi con immutato interesse, tanto erano “moderni” nella direzione degli attori, innovativi nell’utilizzo del suono e della musica.
Ma quello che voglio ricordare ora e qui è La ragazza in vetrina (1961): l’ho visto di recente, restaurato dalla Cineteca di Bologna. È il film che ha troncato la carriera cinematografica di Emmer e gli ha funestato il resto dell’esistenza: dopo decenni, ancora scosso da ciò che era successo durante e dopo la lavorazione, scattava a dire che “è una storia per la quale avrei dovuto ammazzare qualcuno…”. E come dargli torto: basterebbe l’incidente che gli era capitato mentre girava il film nel quartiere delle luci rosse di Amsterdam – appunto quello delle ragazze in vetrina – quando un tipaccio del giro delle prostitute gli diede una spinta che lo fece cadere dentro uno di quei canali che poi vanno a diventare oceano… Dopo quel film Emmer si ritirò dal cinema lavorando solo per la Pubblicità, girò spot premiatissimi, fu lui a ideare la sigla del primo Carosello, quello coi siparietti che si aprivano uno dopo l’altro (solo dopo il Duemila, ormai âgé, tornò a dirigere film “a soggetto”, da Basta! a Una lunga lunga lunga notte d’amore).
Tornando a La ragazza: quando, dopo ritardi e sospensioni nel rilascio del Visto, tagli brutali imposti dalla censura, scene aggiunte che ne alteravano la trama (al regista arrivò persino la proposta “ministeriale” di un compenso di 20 milioni per rigirare una sequenza), il film finalmente uscì nelle sale, ebbe contro la critica del tempo asservita all’idea che “i panni sporchi bisogna lavarli in casa”. E invece Emmer, nello svolgere la trama del film (questa si trova su Wiki) mostrava le condizioni dure degli emigrati italiani nelle miniere del Belgio, Francia, Olanda, compresa la povertà sessuale; e mostrava le prostitute al lavoro nella zona delle luci rosse di Amsterdam (discendenti di quella brave ragazze che fin dalle origini della città nel tredicesimo secolo, i marinai appena arrivati in porto potevano vedere intente ai lavori casalinghi dalle finestre delle locande, subito confortati da quell’atmosfera di casa e dall’idea, eventualmente, poi, di un letto…).
Per trattare di questi temi il regista si era recato lui stesso in una miniera di Charleroy, si era fatto calare fin nella zona più profonda e pericolosa, quella dove scendevano i minatori che volevano guadagnare qualche soldo in più; e nel girare il film ad Amsterdam, si era accordato con la malavita locale pagando i protettori di due delle ragazze in vetrina per “renderle” nei personaggi interpretati da Marina Vlady e Magali Noël.
Le vicende censorie del film (ripristinato nell’edizione integrale solo dopo quarant’anni) sono riportate da Tatti Sanguineti nel docu-film Rai Italia taglia, e raccolte nel volume Italia taglia (Editori Associati-Ancona-Milano 1999), un’antologia di interventi critici sulla censura che ci consegna una inedita storia degli anni del dopoguerra.
Cinquant’anni dopo, precisamente nel 2011, viene presentato al Film Forum di New York Meet the Fokkens, un docu–film girato da Gabrielle Provaas e Rob Schroeder sulle due più anziane prostitute del Red Light District di Amsterdam, dal quale deriva il volume Due vite in vetrina edito da Vallardi nel 2013. Il film vince parecchi premi, il libro diventa subito un caso letterario. Le protagoniste Martine e Louise, due gemelle oggi ultrasettantenni, raccontano i loro quarant’anni di vita in vetrina parlando soprattutto delle piccole e grandi perversioni dei clienti, da quello che va lì solo per farsi rinchiudere in uno sgabuzzino e ci resta tutto il tempo, a quello che vuole fare tutto in fretta in modo da poter riutilizzare il biglietto del tram prima che scada, e tutto il resto. Tutto tranne il rapporto anale: Martine e Louise su questo sono state sempre chiare, avendo esposto un’avvertenza all’entrata che suonava subito a monito tipo “astenersi perditempo”… È un racconto – quello delle due gemelle – indubbiamente vero e vissuto, ma un po’ da sindacaliste della prostituzione quali in effetti Louise e Martine sono diventate: manca invece quel certo sguardo, la com-passione, quel dono di sentire “il sentire” femminile che è valso a Luciano Emmer (“non donnaiolo”, come lui stesso si è definito) l’appellativo di “regista che amava le donne”.
Nella foto in apertura, Luciano Emmer, Marina Vlady, Magali Noël e Bernard Fresson (credit: File:Luciano Emmer, Marina Vlady, Magali Noël en Bernard Fresson (1960).jpg by Henk Lindeboom / Anefo is licensed under CC BY-SA 3.0.)
- Jonne Bertola, giornalista milanese. Autrice del romanzo Swinging Giulia, di Piacenza (Morellini) e di Di chi è questo corpo (Luoghinteriori)