UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Penman. Il riflesso di Fassbinder in migliaia di specchi

Mi è rimasto impresso nella memoria l’episodio firmato da Rainer Werner Fassbinder (1945-1982) in Germania in autunno (1978): nel leggendario film corale del cinema tedesco spiccano i suoi 25 minuti di pellicola in coda alle immagini dei funerali del leader confindustriale Hanns-Martin Schleyer, assassinato dai terroristi della Rote Armee Fraktion.

Fassbinder mette in scena tutto se stesso, si riprende in una sorta di concitato e paranoico diario di quei giorni difficili, tra tesi dialoghi con la madre, tiri di coca, telefonate frenetiche, attacchi di furore o di panico, persino botte al compagno Armin, che ha atteggiamenti piccolo borghesi… Fassbinder ha buttato così il suo grande corpo dritto nel fuoco della polemica politica – vale a dire il ricatto patito in quei giorni dalla sinistra tedesca: esser considerata complice della RAF, appena decapitata dai suicidi di stato di Stammheim (Andreas Baader, Gudrun Ennslin e Karl Raspe).

Capisco ora, leggendo Thousands of Mirrors – Fassbinder Migliaia di specchi (Atlantide), il saggio di Ian Penman dedicato al regista – Penman lo ha scritto per frammenti quasi barthesiani e in tutta fretta, allo stesso modo in cui il tedesco girava – che in Germania in autunno c’è il Fassbinder uno e trino, smodato e imprevedibile, che prima di conquistare sconcerta. “La trinità empia”, scrive il critico inglese, è composta da “Fassbinder l’artista, ‘Fassbinder stesso’ e il mitico orco RWF”.

Leggere per comprendere meglio. Comunque: quest’orco accorciato nel nome alle sue iniziali è il gigantesco personaggio che intimidisce e spaventa, producendo a profusione film, sceneggiati tv, teatro e notizie per i tabloid, in un’incredibile e spesso contraddittoria ricerca di “autodefinizione” (il desiderio di essere vero e congruente a se stesso), stando in bilico tra due culture divergenti: da un lato, c’è l’ultimo tra i modernisti marxisti che crede nella rivoluzione e nel cinema come narrazione popolare, dall’altro spunta il punk anarchico queer, Brecht si confonde con il ghigno di Johnny Rotten.

Scrive magistralmente Penman, trovando nell’opera di Fassbinder un comun denominatore: “Se c’è un filo che collega i film (e i personaggi feriti, maltrattati e condannati che li popolano: da Ali a Fox a Elvira a Veronika), è la sensazione che ci sia qualcosa di gravemente sbagliato nello stato della Germania del dopoguerra […] Potrebbe esserci stato un miracolo economico nel dopoguerra, ma è stato acquistato con le vite e le anime di molte vittime inconsapevoli. A scapito di un’umanità fondamentale: un’umanità sognante, desiderante, esigente”.

La domanda finale di Penman riguarda il privato di un appartenente a questa umanità, un uomo che è diventato “an entire town, region, conurbation, country; die Fassbundesrepublik”: ma Rainer Werner Fassbinder, chiede Penman, “si è davvero suicidato, cercando di essere all’altezza di una versione esagerata di se stesso, riflessa in tutti gli specchi del mondo?”.

Nota. Traduzioni mie. Credit: File:Rainer Werner Fassbinder 1980.jpg” by Gorup de Besanez is licensed under CC BY-SA 4.0. Rainer Werner Fassbinder” by Festival de Cine Africano FCAT is licensed under CC BY-SA 2.0.

I social: