Eccoci subito in medias res. Cina, fine anni Cinquanta: le comuni nelle campagne sono la chiave di volta della transizione verso il comunismo. I quadri di partito, insieme ai militari, giacciono proni al potere teocratico del visionario Mao Zedong, e fanno da cinghia di trasmissione ai suoi ordini. Volenti o nolenti, più spesso servili e pilateschi, affamano i contadini irregimentati in una miserabile vita da schiavi: la transizione al comunismo, appunto, si svolge tutta sulla pelle dei più umili.
Mao è il timoniere infallibile che precipita un popolo nel disastro, appoggiato dal suo governo fantoccio, quando sventola la rossa bandiera del Grande Balzo in avanti; quando, senza autocritica verso il cosiddetto avventurismo, si inventa – o sopravvaluta – un Paese che economicamente non esiste e innesca con epicentro nella provincia dello Henan la devastante carestia (poi occultata o negata strenuamente) dell’anno 1958. Detto in modo chiaro e coinciso: il Grande Balzo in avanti altro non è che una sorta di volontaristico e pericoloso “superamento della realtà” (nel senso che non se ne tiene conto).
Tra il 1958 e il 1962 muoiono per fame 36 milioni di cinesi. Leggo che è una cifra equivalente a 450 volte il numero delle persone uccise dalla bomba atomica sganciata su Nagasaki; è pari a 150 volte il numero delle vittime del terremoto di Tangshan del 1976; supera il numero dei morti della prima guerra mondiale.
La catastrofe non nasce per un caso avverso ma è stata propiziata da decisioni umane, troppo umane, da chi di fatto ha edificato la dittatura del proletariato tramite un unico leader: l’imperatore Mao. La carestia è frutto della campagna dissennata che, oltre alla proprietà individuale, mira a distruggere la cellula borghese della società, ovvero la famiglia – no, non si tratta di un superamento così agevole, quasi automatico, con la sovrastruttura che segue marxianamente il mutare della struttura produttiva…
Questo racconta, questo è il risultato cui è giunto al termine di una puntigliosa e coraggiosa indagine, Yang Jisheng, giornalista e saggista cinese, nato nel 1940. Il suo libro, Lapidi, apparso per la prima volta a Hong Kong nel 2008, è una estesa (800 pagine, tradotte dal cinese da Natalia Francesca Riva) e demistificante opera sulla Grande Carestia e, va da sé, sull’anima della Cina comunista.
Yang Jisheng conosce benissimo ciò di cui parla: nell’aprile del 1959, ha visto il padre adottivo crepare di fame. Al tempo, è uno studente, nella contea di Xishui, ed è più o meno imbevuto di sogni palingenetici; avvertito delle precarie condizioni in cui versa il genitore, trova a casa una situazione compromessa. Il padre di Yang Jisheng è ridotto a uno scheletro, ha “gli occhi incavati e spenti”, nemmeno possiede la forza di fare un cenno di saluto. Muore incapace di deglutire la zuppa di riso, che gli ha procurato il figlio.
Oltre che il passo dello storico, Yang Jisheng offre quello del reporter, capace di ricostruire capillarmente la carestia nelle zone più colpite e abile nel racconto dei singoli casi, come il noto “incidente di Xinyang”, nella provincia dello Henan: esso si inaugura, primo di una lunga serie di pestaggi a morte, con il linciaggio di un funzionario sospettato di deviazionismo (il peggior peccato ideologico); e dove si evidenzia il meccanismo perverso messo in atto dalle Prefetture.
Queste ordinano requisizioni esorbitanti di cereali in quanto calcolate su stime di produzione esagerate per timore di scontentare i superiori di partito. Ne consegue il collasso delle strategiche mense comuni – che però, per divieto statale, non possono essere chiuse ma devono continuare chissà come la loro attività – e la prostrazione dei contadini, dapprima in grado di alleviare la fame con foglie di patate ed erbe selvatiche… Finché la situazione tra carenza di cibo, continue azioni di requisizione e il puro terrore di ammettere, se non il crollo, almeno le difficoltà del sistema, si apre a un affresco di disperante drammaticità.
Il potere perverso di negare la realtà provoca (di fatto con il benestare ideologico di Mao) crudeltà ed esecuzioni sommarie dei presunti traditori e la “chiusura” delle contee senza che vi sia la possibilità di fuga degli abitanti o la semplice diffusione di notizie – guai ai contadini che tentino di raggiungere le aree urbane o minerarie! – mentre i cadaveri dei morti di fame sono abbandonati senza sepoltura all’aperto e diventa abituale persino la pratica del cannibalismo. La fedeltà al partito comunista si evidenzia, quasi per paradosso, nell’homo homini lupus, vale a dire nella capacità di denunciare o punire con violenza il proprio vicino.
Non ricordo più molto bene che cosa fu per l’Occidente l’infatuazione maoista – mi è capitato di ripensarci di recente leggendo una biografia di Jean-Paul Sartre o ritrovando in una vecchia biblioteca da smantellare una canonica copia de Il Capitale, nell’economica degli Editori Riuniti, e un Libretto rosso di Mao, accanto ai volumetti colorati di Proletari senza rivoluzione (Savelli).
Non importa. Yang Jisheng ci porta davvero al centro di un continente che un tempo in Italia, da Lotta continua a Dario Fo, era diventato – anche – una sorta di slogan (qualcosa tipo La Cina è vicina), e snocciola fatti e cifre da choc pure per il nostro mondo attuale che è tornato a conoscere il dramma della guerra.
Le pagine precise e meticolose dello studioso cinese sono l’analisi di una mancata rivoluzione e la miglior lapide laica per rammentare il destino di chi, prima di morire, è stato costretto a cibarsi di paglia di riso, guano di airone bianco, erbe e topi – quando non di cadaveri (ci sono padri che divorano i figli come nell’Inferno dantesco).
Questo libro è una lapide laica che non nasconde la Grande Carestia dietro la versione dei “tre anni di disastri naturali”, ma pare semmai la pietra tombale dove è stato perpetrato un sacrificio umano, dedicato al mito dell’industrializzazione forzata, se non del comunismo. A futura memoria.
Il libro Yang Jisheng, Lapidi. La Grande Carestia in Cina. Traduzione dal cinese di Natalia Francesca Riva. Adelphi, Milano 2024, L’oceano delle storie, 30, pagine 836