Nel tentativo di riportare un po’ di ordine tra i miei libri, ho ritrovato tanti ricordi della mia famiglia e mi sono trovato a ripercorrere la sua storia, simile a quella di tante altre famiglie, che mi ha riportato in un mondo lontano.
Da piccolo non mi piacevano le fiabe ma i racconti dei nonni, dei miei genitori, dei loro amici che ascoltavo con attenzione e in silenzio quando la sera ci si raccoglieva in salotto. La televisione ancora inesistente non ci inchiodava nella stasi fisica e mentale di questi tempi.
I racconti più antichi risalgono a mio nonno materno Vincenzo (Roberto di cognome) nato a Bari nel 1867. Morì nel luglio del 1948 quando io avevo otto anni. Era nato sei anni dopo l’Unità d’Italia e due dopo l’arrivo della linea ferroviaria Adriatica che proseguiva sino a Brindisi e Lecce.
La domenica il padre lo portava alla stazione a “vedere i treni con le locomotive sbuffanti che arrivano dal Nord”. Rimase estasiato quando una di quelle visite coincise con l’arrivo della Valigia delle Indie (Indian Mail), il treno di lusso che collegava Londra a Brindisi, dove i passeggeri venivano imbarcati sul piroscafo che li avrebbe portati in India. Il collegamento cominciò nel 1870, un anno dopo l’apertura del canale di Suez, sedici anni prima della nascita dell’Orient Express, Londra-Istanbul.
All’inizio l’Indian Mail arrivava a Marsiglia dove lo attendeva la nave per Suez, ma gli inglesi calcolarono che facendolo proseguire sino a Brindisi, il viaggio sarebbe durato un giorno in meno. Così la Valigia delle Indie, partita da Londra il venerdì, arrivava in 44 ore nella città pugliese la domenica pomeriggio.
Il nonno mi disse: “Chiesi a mio padre se avesse mai preso quel treno e lui mi rispose negativamente, perché in Italia le carrozze viaggiavano con gli sportelli bloccati, nessun italiano poteva salirvi”.
E poi mi raccontava di quando a Bari arrivarono i primi tram elettrici il cui passaggio faceva imbizzarrire i cavalli e di quando nel 1898 vide la prima carrozza a motore del duca Acquaviva d’Aragona. “Ero in bicicletta e tentai di raggiungerla senza riuscirci”.
A quel tempo il nonno era sposato e padre di sette figli: ne arrivarono altri quattro nel secolo Ventesimo e l’ultima fu mia madre. Avrebbe voluto girare il mondo ma non poté farlo. Rimase sempre a Bari lavorando come “stimato ragioniere” rimpiangendo un po’ i tempi in cui il padre era proprietario di una fabbrica di candele. Ma con l’arrivo dell’elettricità dovette ridurre la produzione e poi chiuderla.
Un altro ricordo del nonno Vincenzo risale al marzo del 1948 quando era in corso la campagna elettorale per il 18 aprile che decise la vittoria della DC. Il padrone di casa, nostro vicino – brava persona ma nostalgico fascista – a una certa ora della sera suonava col violino Faccetta nera. Il nonno, anche lui “armato” di violino gli rispondeva suonando Bandiera rossa. Morì pochi mesi dopo. Ma il 18 aprile era andato a votare.
La vita di mio nonno paterno, Sebastiano Vittorini, era stata più movimentata, almeno nella prima metà dei suoi anni. Lo appresi dai suoi racconti e da quelli dei quattro figli, Elio, Ugo, Jole, Aldo.
Era nato a Siracusa nel 1883: “Purtroppo lo stesso anno di nascita di Mussolini” raccontava. Si era iscritto al Partito socialista nel 1900. Il padre, Vincenzo, era figlio di un ispettore delle dogane piovuto dall’Emilia per risolvere un problema burocratico, quando in Sicilia c’erano ancora i Borboni. Si innamorò di una giovane siracusana, la sposò e rimase a Siracusa.
Il loro figlio Vincenzo sposò, sempre nella stessa città, Vincenza Midolo, figlia di un armatore che possedeva sette velieri da trasporto. (Quanti Vincenzi tra i miei avi e non a caso il mio secondo nome è Vincenzo).
I sette figli dell’armatore, alla sua morte, ereditarono ciascuno un veliero. Vincenza lo vendette subito e col denaro aprì assieme al marito una pasticceria in via Maestranza, il corso principale di Siracusa, nell’isola di Ortigia. Era una donna di chiesa e costrinse il figlio Sebastiano a entrare in seminario.
Ma Sebastiano non vi rimase a lungo. Durante una funzione religiosa, mentre era in ginocchio fingendo di pregare, il vescovo passandogli vicino si accorse che aveva i capelli troppo lunghi che gli coprivano la nuca. Gli dette uno scappellotto dicendogli “fatteli tagliare subito”. Sebastiano si alzò, si tolse la tonaca e uscì di corsa dalla chiesa abbandonando per sempre il seminario, con la gioia del padre e la disperazione della madre.
Aveva 16 anni e al seminario frequentava il liceo, ma era troppo tardi per l’iscrizione a una scuola pubblica. Allora la madre, forse per punirlo, lo affidò ai fratelli armatori i quali lo fecero imbarcare come mozzo su uno dei loro velieri che con le merci solcavano il Mediterraneo.
“Quella punizione mi servì per conoscere il mondo” mi disse raccontandomi dei suoi viaggi: la nave attraccava spesso a Tunisi, Tangeri, Algeri, Alessandria, Beirut, Haifa, Istanbul e tante isole greche. Io che ascoltavo sognavo di poter fare da grande quei viaggi.
Si era portato una valigia piena di libri, alcuni di latino e greco che leggeva per mettersi in pari con gli studi scolastici. La “punizione” finì dopo poco più di un anno e in quello successivo riuscì a superare gli esami di maturità da privatista.
Si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Catania, ma dopo qualche esame decise di uscirne e fare un concorso nelle Ferrovie. Uno dei motivi fu l’amore per Lucia Sgandurra, sorella di un suo amico, che diventerà mia nonna. Doveva essere molto bella: aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri. A Siracusa, mi raccontò mia zia Jole, la chiamavano la bella normanna.
Vinse il concorso classificandosi primo, mentre il secondo spettò a Gaetano Quasimodo, suo amico, padre di Salvatore, il poeta. Era il 1905, l’anno in cui le ferrovie gestite da società private passarono allo Stato. Aggiungo che Rosa, la sorella di Salvatore, divenne più tardi moglie di Elio Vittorini dopo una breve fuitina.
Sebastiano sposò subito Lucia che lo accompagnò nei frequenti trasferimenti nelle piccole stazioni siciliane, dove spesso regnava la malaria. Si fermarono per un anno a Scicli dove mia nonna si fece conoscere per la sua umanità e generosità.
Poco tempo fa, mentre mi trovavo in questa città, un funzionario del Comune mi raccontò che viveva ancora un vecchietto centenario il quale da piccolo aveva conosciuto “donna Lucia” quando andava a fargli le iniezioni, non solo a lui ma anche alla madre, al padre e a tante altre famiglie povere. Era un caso raro di volontariato. Ne parla Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia, dando a sua madre un altro nome.
Elio nacque a Siracusa nel 1908, nella casa dei suoi nonni a Ortigia, la città antica. Oggi lo ricorda una lapide e gli è stato dedicato anche il vicino lungomare di levante. La stazione invece porta il nome del padre Sebastiano, dove era stato vice capostazione.
Nel tempo libero mio nonno leggeva molto, scriveva poesie in siciliano, amava il teatro e nelle piccole stazioni organizzava rappresentazioni classiche con attori presi tra altri ferrovieri e i loro figli. Stabilitosi a Siracusa, organizzò una compagnia filodrammatica nel dopolavoro dei ferrovieri.
La sua carriera nelle Ferrovie dello Stato fini quando rifiutò di prendere la tessera del fascio. Per un certo periodo lo coprì un amico della federazione fascista, ma poi fu messo a riposo con una piccola pensione che arrotondò con lezioni private agli studenti.
In gioventù andavo spesso a Siracusa: nonna Lucia era morta nel ’56 e il nonno viveva con la figlia Jole, rimasta nubile. Ricordo la casa con il grande terrazzo che dava sul mare; il suo studio pieno di libri, dove si ritirava a leggere e le lunghe passeggiate sino alle latomie del tiranno Dionisio il Grande, con la sosta alla Grotta dei cordari dove i ricottari facevano una ricotta buonissima che mangiavo ancora calda spalmata sul pane con la “giugiulena”, i semi di sesamo.
Durante una di quelle passeggiate mi confessò di essere stato severo con i propri figli, specialmente con Elio e Ugo “un po’ ribelli”. Gli avevano affibbiato il nome di “la morale”. Elio, che amava molto leggere, prendeva i libri dal suo studio, spesso ne sottolineava alcune frasi e non li rimetteva a posto. Decise di chiudere a chiave la porta dello studio quando si assentava.
Poi venne a sapere che il figlio era riuscito a trovare un doppione della chiave e che in sua assenza si accomodava nello studio, mentre il fratello minore, Aldo, sorvegliava la strada per avvertirlo quando arrivava “la morale”. “Feci finta di niente pensando che in quel modo Elio avrebbe usato con più cura i libri” mi disse.
Mi raccontò anche dell’incontro di Elio diciassettenne con Curzio Malaparte. A quell’età lo scrittore in erba gli inviò un racconto, quando era direttore della Stampa, che piacque e venne pubblicato. Dopo uno scambio di lettere, Malaparte gli chiese di incontrarsi a Roma. Si dettero appuntamento alla stazione dove Elio all’arrivo lo riconobbe subito e gli disse: “Sono Vittorini”. Malaparte rimase interdetto perché non si aspettava di trovare davanti a sé un “ragazzo spilungone con i pantaloni corti, ma un uomo maturo e con la barba”.
La figlia di Sebastiano, Jole, morta a 92 anni, lasciò libri e mobili dello studio del padre alla Biblioteca provinciale di Siracusa. Seppi di quel lascito pochi anni fa e quando vi andai trovai lo studio del nonno ricostruito esattamente come era stato nella sua casa: lo stesso tavolo, la poltrona dove si appisolava il pomeriggio, la grande libreria, gli stessi tendaggi.
Il direttore aveva raccolto in un grande album tutte le cartoline illustrate trovate tra i volumi come segnalibri. Fu per me un triste salto nel passato: vidi una cartolina inviata nel 1948 dai miei genitori per un compleanno del nonno, che riportava anche i miei saluti; un’altra inviata da mio fratello da una miniera di zolfo siciliana, dove si trovava per la tesi in geologia; e ancora una cartolina di mio padre mandata dal fronte durante la guerra, e tante altre.
Sul tavolo era esposta anche una fotografia di una giovane donna e il direttore mi disse che non sapeva chi fosse: era mia sorella Lucia, morta prematuramente. Poi negli anni se ne sono andati via tutti: Elio a 56 anni, Ugo a 61, il fratello più piccolo Aldo, il più longevo, a 94. Sebastiano sopravvisse ai primi due figli morendo nel 1972.
Di Elio e Ugo mi rimasta una testimonianza, Val di Perga, una villa con annessa cappella e intorno le case rurali da restaurare, che comprarono negli Anni cinquanta, quando in Toscana le abitazioni di campagna costavano poco.
La scorgo sulla punta di una collina tutte le volte che percorro l’autostrada verso Livorno. Volevano restaurarla per renderla un punto di incontro per giovani scrittori. Ma i lavori quasi finiti vennero sospesi con la morte di Elio. Gli eredi e mio padre preferirono venderla e ora viene utilizzata per organizzare matrimoni.
- Foto in apertura: il porto di Brindisi con il piroscafo e il treno arrivato da Londra