Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale…
Le coppie di anziani, che gran mistero. Chi anziano non è, per pavidità si rifugia nella retorica, nell’ammirazione quasi letteraria per stoiche resistenze da nozze d’oro. Tutto pur di allontanare da sé la paura, la domanda che fa tremare i polsi: ma noi, noi con le nostre anime e i nostri corpi stropicciati dalla vita, cosa saremo un domani noi, ammesso che saremo?
Il regista Alessandro Soetje, nato a Bologna ma cresciuto a Milano, lontane origini olandesi, già apprezzato nel mondo dei documentari e di spot pubblicitari con la sua Nantucket, la cui cifra stilistica è una narrazione di taglio cinematografico, nel cortometraggio Quando piove a Baden-Baden, piccolo gioiello di emozione e poesia, segue in bianco e nero due anziani che vivono in una Rsa, ospitata in una bellissima ex villa nobiliare: Alida (Elisabetta De Palo) e Georg (Massimo Foschi).
Auguro successo a questo piccolo grande film italiano, che è già stato premiato come miglior cortometraggio in lande lontane, allo ScorpiusFest dello Utah, negli Stati Uniti, e merita di essere valorizzato anche nei festival nostrani, per il tema delicato, attuale, necessario, e soprattutto per come Soetje ha scelto di raccontarlo.
Prendi un non luogo, un hotel, un sanatorio, un ospedale, e gli umani troppo umani in queste cornici che superano tempo e spazio – quello consueto, domestico, quotidiano – trovano una nuova definizione di sé, forse più autentica, più vera.
Alida e Georg abitano camere separate dello stesso non luogo. Lei discreta, piena di grazia, nel tempo libero dipinge, bellissimi occhi azzurri che lasciano trapelare lontani ricordi. Lui, origini tedesche che gli regalano in italiano un eloquio buffo, desueto, rispolvera le abitudini da elegante seduttore per farle una corte serrata. L’escamotage è classico: noi due non ci siamo già visti? Magari a Baden-Baden, località termale spesso citata nei libri di Jane Austen o di Tolstoj, un altro non luogo dove tutto è possibile, anche aver vissuto una vita precedente.
Intorno alla coppia, la prosaicità del quotidiano: le inservienti con i carrelli, gli ausili sanitari, la televisione accesa. Siamo in piena emergenza pandemica e una severa ispettrice Asl (Marta Zoboli) deve verificare che i protocolli per evitare la diffusione del Covid 19 siano rispettati; il goffo dirigente della Rsa (Marco Cavalcoli) è in evidente difficoltà.
Ma poco importa, Alida e Georg vivono in un’altra dimensione, resa con immagini che non si dimenticano facilmente. Si muovono nel parco, in corridoi vuoti, nelle sale ricreative messe a riposo dalla pandemia. Scrivono su questo grande concetto spaziale la loro presenza onirica, che deve restare segreta, perché i protocolli imporrebbero distanza, confinamento nelle loro camere.
Georg spia Alida, la segue. Lei è la sua Claudia Chauchat: come per l’Hans Castorp della Montagna incantata Claudia era una ragione sufficiente per restare nel sanatorio di Davos, Georg sussurra ad Alida: «Ma poi arrivi tu…». Poi, dopo l’ingresso di lei, tutto è cambiato.
Eppure il film ci dice che il corso del tempo trasforma, ma non cancella. Che da dietro alla finestra, là fuori, sulla panchina dei nostri due anziani, l’amore arriva a tutti, persino alla severa ispettrice. L’amore è una cosa semplice, anche quando deve trovare stratagemmi difficili per sopravvivere, anche quando il viaggio è periglioso, anche quando Georg potrebbe ben dire, come Montale: “…né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”.