Come si cambia. Credo che mi piaccia leggere Georges Simenon perché mi risveglia il ricordo di un mondo passato, dai contorni netti, quello cui appartenevano i lettori frettolosi (come me), che compravano un Maigret all’edicola della stazione, un volumetto poliziesco ideale per una media percorrenza su un treno sferragliante.
Ricordo, da ragazzino – quindi quasi mezzo secolo fa – di aver scoperto una collezione completa di Maigret in casa di un’insospettabile anziana prozia che abitava sul lago di Como: credo appartenessero alla collana degli Oscar con le impareggiabili copertine di Ferenc Pintér, ed erano alloggiati su uno scaffale a un passo da un pianoforte verticale che pareva orgoglioso di sé. Quei Maigret non indicavano però uno status intellettuale – le gesta del commissario cinquant’anni fa erano considerate un passatempo, non certo letteratura: significavano invece una certa comunanza esistenziale. In fondo, poi, si poteva verificare un delitto alla Simenon anche tra la minuta gente di quelle villette lacustri.
Come si cambia e oggi tutto è cambiato. Anche la percezione di Simenon, lodato di più per i cosiddetti “romanzi duri” che per il suo bonario poliziotto. In Italia, si è fatto carico di un geniale riposizionamento di Simenon Roberto Calasso di Adelphi. Ha visto in lui, e lo ha scritto, una sorta di novecentesco Balzac: a partire dagli Ottanta, ha reinventato editorialmente il belga, spostandolo dalle librerie degli ignoranti a quelle intellettuali (cfr. L’impronta dell’editore, Adelphi).
Oggi leggo un roman dur, La prigione, appena uscito, e datato 1967 – è quindi uno degli ultimi romanzi, poiché Simenon smette di scriverli nel 1972. Tratta di falsi sentimenti e di comunicazione adulterata (che voglia di acquistare il magazine Toi!), di alienazione e di angoscia in una Parigi di presunti vincenti, tra panciuti notabili, sbirri pensosi e avventurieri nichilisti.
Protagonista della vicenda è Alain Poitaud, “un uomo cinico, superficiale, mondano, il donnaiolo incallito sempre pronto a fare dell’ironia”, che viene spiazzato da un gesto imprevisto dell’arrendevole moglie soprannominata Micetta – Micetta spara alla sorella, la qual cosa prova che anche nei romans durs Simenon fa fatica a rinunciare al crimine. Poitaud sarà dunque costretto a un precipitoso e angoscioso faccia a faccia con la realtà.
È cambiato tutto, o no? Leggo La prigione d’un fiato e penso che il volumetto sarebbe andato a ruba in una vecchia edicola di stazione e probabilmente avrebbe trovato posto nella libreria della prozia, pur se nel frattempo Simenon è stato riconosciuto come un grande scrittore ed è diventato esempio di popolare ma sofisticata letteratura (in Francia La Pléiade lo ha consacrato, in ritardo, nel 2003).
Il belga racconta spesso o sempre di gente comune, appartenente a una non gloriosa borghesia posta di fronte agli scarti della vita – quelli messi in moto dal celebre déclic, il primo capitolo da cui discende a cascata il resto – e il calvario dello sprezzante Poitaud può raccogliere oltre all’applauso la nostra nostalgia poiché, da ingenui piccolo borghesi sociali o mentali che eravamo, noi tutti siano finiti a far gli opliti in un’indistinta massa in affanno per le strade tutte uguali di un universo digitale.