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Allonsanfàn
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L’amore al bivio di Past Lives

Past Lives è stato acclamato al Sundance e alla Berlinale, si è aggiudicato due candidature all’Oscar oltre a quelle dei Golden Globe, e ha fatto man bassa di premi a Gotham Awards, National Society of Film Critics Awards e AFI Awards.

Ma di che cosa tratta il film (uno dei film) del momento? Tagliato sartorialmente, poi vediamo come, sulla biografia della regista Celine Song – debuttante al cinema, ma già nota come sceneggiatrice e drammaturga a New York (Endlings) -, Past Lives narra di un amore impossibile scomponendolo e ricomponendolo durante un quarto di secolo.

Dunque. In Corea del Sud, Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo) sono i grandi amici d’infanzia e adolescenza che si separano quando la famiglia (molto intellettuale) di Nora lascia il Paese per il Canada.

Il primo abbandono

Dodici anni dopo si ritrovano su Facebook e si scambiano messaggi e chiacchiere in remoto da due continenti diversi, finché Nora dà un sofferto stop. Non ha tempo per guardare indietro alla terra natìa, lui è “molto coreano”, lei ha scelto l’Occidente.

Passa un altro decennio prima che si ritrovino faccia a faccia a New York. Ora Nora è una scrittrice sposata con uno scrittore ebreo, munito di barba, pancetta e camicia a quadri, e abita con lui nell’East Village. Hae Sung è un coreano qualunque – cioè è sempre “molto coreano” – in pausa di meditazione con la sua donna e, naturalmente, in contatto con il fantasma dell’indimenticata Nora. Il loro è un incontro con il destino e con le decisioni che segnano il corso della vita – ecco alcune delle domande aperte in dialoghi di poche parole ben distanziate: se Nora fosse rimasta in Corea sarebbe sposata con Hae Sung? E nel caso, che fine avrebbe fatto quel buon diavolo dello scrittore jewish? Ma non è che in fondo in fondo Nora è sposata a Hae Sung in un’altra vita immaginata o magari lo sarà, reincarnazione permettendo, nella prossima? Ecco: Past Lives, titolo quasi proustiano per un caso tutto sommato ordinario di sliding doors, è una love story impossibile che si vuole contemporanea e struggente, assai cool e internazionale. Come andrà a finire?

Celine Song, lo si capisce subito, non ha paura dei cliché, anzi li adopera apposta, li fa suoi, e ce li offre copiosi per farci meditare. Non per caso Nora vive in una New York da cartolina, non per caso porta Hae Sung a vedere la Statua della Libertà e manca poco che, tra un selfie e l’altro, non si sieda con lui sulla stessa panchina di Io e Annie. È tutto studiato. Perché è la rigidità degli schemi, fisici e mentali, e la durezza delle cose, del reale, quella che imprigiona i suoi protagonisti e li porta a decidere la loro storia e la loro non storia. Peccato che troppo spesso Nora e Hae Sung siano accompagnati nella loro civile ricerca – sì, i due coreani sono i “non amanti” più civili e cerimoniosi tra quelli che conosciamo – da un uso continuo e un po’ troppo emotivo di musica ambient da ascensore.

L’amore è una giostra

Post Scriptum. Questa la storia che ha fornito lo start al film (dal pressbook). Una sera di qualche anno fa, Celine Song si ritrovò seduta in un bar tra due uomini provenienti da periodi diversi della sua vita. Uno era il marito di New York, l’altro l’amore d’infanzia, che era venuto dalla Corea per visitare la città. In quel bar, nel ruolo sia di traduttrice che di intermediaria, Song ha avuto la sensazione di attraversare due dimensioni alternative, fondendole in una sola. “Ero seduta lì tra questi due uomini che mi amavano in modi diversi, in due lingue diverse e due culture diverse. E io ero l’unico motivo per cui questi due uomini parlavano tra loro” ricorda Song. “C’è qualcosa di quasi fantascientifico in questo. Ti senti come qualcuno che può trascendere la cultura, il tempo, lo spazio e la lingua”.

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