Ci meritiamo l’estinzione, anzi, “dovemo morì tutti e male”, dirà a un certo punto il personaggio femminile interpretato da Emanuela Fanelli, quando si alza dal classico cineforum estivo in piazzetta, dopo aver visto per sbaglio un film d’essai proposto dall’altrettanto classico intellettuale di provincia – do you remember Nicola Palumbo-Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati? – idealista e sognatore.
La frase riassume il pessimismo di fondo che aleggia su ogni scena di Un altro Ferragosto, secondo capitolo molto tardivo, quindi senz’altro onesto, di Ferie d’agosto.
Corale è un eufemismo: Paolo Virzì, che ha scritto il film col fratello e con Francesco Bruni, ci mette tantissimo, i personaggi sono infiniti e a tratti si fatica a sbrogliare la matassa.
Si può guardarlo senza aver visto il primo? Nì, ma anche senza averlo prima rivisto, bisogna dare per scontato che qualcosa si perderà per strada, in fondo sono passati 28 anni. Poco male, ci si prova, ognuno terrà nella mente quel che più gli somiglia o lo tocca. Anzi, i rari flashback forse avrebbero potuto non esserci, aggiungono troppa carne a un piatto già abbondante.
Nel banchetto, ritroviamo sull’isola di Ventotene le due famiglie archetipo di un Italia divisa: i Molino, intellettuali di sinistra, camicie di lino, sandali, candele; e i Mazzalupo, arricchiti di destra, tacchi anche in spiaggia e luci stroboscopiche. Questa volta la loro vacanza non potrebbe essere più diversa: Altiero (Andrea Carpenzano), il figlio che in Ferie d’agosto Cecilia (Laura Morante) annunciava di aspettare, ha deciso di far trascorrere un’ultima estate felice al padre Sandro (Silvio Orlando), malato terminale. Raduna perciò tutta la famiglia, con inevitabile confronto tra aspettative mancate e dinamiche dure a morire.
Dall’altra parte della barricata, Sabry (Anna Farraioli Ravel), la goffa figliola di Ruggero Mazzalupi, ha organizzato il suo grasso–grosso matrimonio da influencer con l’orrido opportunista Cesare (Vinicio Marchioni) proprio accanto alla casa dei Molino e le conseguenze sono facilmente prevedibili.
Cerchiamo di raccogliere alcune immagini, tutto sarebbe impossibile e inutile da dire.
Bravissimo, come sempre, Vinicio Marchioni nel ruolo di Cesare, e sembra impossibile che al cinema sappia recitare il fascistone coatto e a teatro Chi ha paura di Virginia Woolf? Se fosse americano, avrebbe già vinto un Oscar.
Brava anche Sabrina Ferilli, clan dei Mazzalupo: quando la dirige un regista vero, dà il suo meglio. Vorremmo rivederla anche non pettinata e vestita da Ferilli, chissà che nuove sorprese potrebbe riservarci.
De Sica fa De Sica, ma scatena comunque la risata, il mestiere non è acqua fresca: quando Sandro s’indigna perché qualcuno gli dà del radical chic (“Ha detto radical chic?”) lo sguardo con cui risponde: “L’ha detto, l’ha detto” si tramanda coi geni, non s’impara. Non a caso, lo mettono nel trailer.
Nel gran circo del film, ci sono personaggi decisamente caricaturali, per esempio Noah, il marito americano di Altiero, che sembra Achille Lauro agghindato per un’esibizione a Sanremo. Un gay più rarefatto fa meno ridere, certo, ma il pedaggio alla quota comica qui è eccessivo.
I conti, ovviamente, non tornano in maniera più amara e triste dalla parte dei Molino, cioè del regista stesso, ché se la destra è sempre la destra, cambia solo mezzi – la Rete anziché il volantinaggio – ma resta tenacemente aggrappata alla sostanza di sempre, al parla come mangi, alla dimenticanza della Storia come manifesto a-morale, all’ostentazione del benessere come misura del successo, è la sinistra che sbanda e non sa bene dove andare. Infatti, la destra alle elezioni si compatta, mentre a casa Molino ancora si discute di Elly e dei Cinque Stelle.
Virzì proprio qui è acuto, spietato e molto efficace. Sandro, giornalista dell’Unità in pensione, cioè di un giornale che neppure esiste più, perlomeno come lui lo aveva vissuto, è il riassunto umano dello smarrimento.
Le parole che scorda e confonde per via del glioblastoma implacabile sono il ritratto malinconico di una perdita di senso e identità, che prova disperatamente ad aggrapparsi a una lettera scritta a Ursula von der Leyen nello stile di quelle di Herzog di Saul Bellow: gentile Ursula, su questa isoletta fu vergato il Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita dai confinati antifascisti Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Sandro la detta al nipotino Tito, l’unico che sembra capire quelle che a tutti gli altri sembrano solo chimere ossessive.
Altiero, per far piacere al padre che non lo capisce e non apprezza il suo successo come ideatore di start up, ha addirittura fatto ricostruire il pollaio che secondo Sandro è stato teatro delle migliori idee dei confinati. Finto pollaio che con dolore e sdegno dell’ex giornalista viene veramente distrutto dai Mazzalupi, per fare spazio alla cornice del matrimonio coatto.
Ma è davvero così importante che il pollaio finto sia finto? Oppure sono il sogno e l’illusione che ancora possono dettarci una via? Non è proprio la mancanza di un ideale da sognare, riconoscibile anche da un bambino come Tito, che ha immalinconito la sinistra?
Sognando sognando, guarda caso Sandro è cullato verso la fine e vede meglio anche la realtà, quando Pertini, Colorni, Spinelli e la moglie Ursula Hirschmann lo illuminano con un: “Non sai voler bene” che non può non ricordare quello, dolce, ma deciso, che Claudia Cardinale, apparizione da sogno, diceva a Marcello Mastrioianni in Otto e mezzo.