Qui si parla di una madre e di un figlio: una madre viene ricordata – o piuttosto messa a nudo nelle sue meschinità – da un figlio che l’ha sempre detestata. E però alla madre, da cui il figlio è fuggito presto e che dapprima, dalla prima pagina, rievoca in modo irriverente attraverso il fetore – la puzza improbabile conseguenza di un’antica ferita – a lei, Angela Izzo, Antonio Franchini (Napoli, 1958) dedica il più denso e personale dei suoi romanzi, Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio).
È quasi scontato: le domande postume su chi davvero sono stati i nostri genitori spesso si perdono nel campo di smemorata distanza aperto dal tempo o s’intossicano della rigidità dei ruoli interpretati – ecco ciò che ci separa dalle madri e dai padri, ora che siamo cresciuti e magari invecchiati.
Così, le certezze di poi, sia che ne riguardino l’identità profonda sia che tocchino comportamenti inspiegabili in episodi futili, sono impossibili, in quanto inverificabili: si trasformano in ipotesi, quando, come nel romanzo di Franchini, lo strumento di ricerca è la letteratura, la scrittura, che ci porta letteralmente a spasso nella Napoli degli anni Sessanta. Dice Franchini da qualche parte, giocando su una traduzione materna dal latino sine litteris: “Neanche la vita che abbiamo vissuto possediamo, perché ognuno se la ricorda a modo suo e la vita nostra non è affatto la vita nostra ma il racconto che ce ne siamo fatti e che chiunque abbiamo incontrato è in grado di raccontare a modo suo. Se non ci fosse la letteratura…”.
Se non ci fosse la letteratura. Franchini inchioda le sue frasi in un flusso ininterrotto di capitoletti di diversa lunghezza e privi di una troppo severa cronologia, da ognuno dei quali può trarre, semplicemente narrando, lampi di momentanea saggezza – assai presto dimenticabile – sull’esistenza sfigata e tragica di noi miseri terrestri. Franchini parte da introverso ma deciso ribelle e finisce (forse) da Giobbe biblico e sarcastico, come tutti noi comicamente imbrogliati e sconfitti dal ciclo della vita.
Qualche “per fortuna”. Per fortuna, Franchini non ha bisogno né fa le parti dello psicoanalista nel rievocare i genitori, un commercialista ombroso e una casalinga furente col mondo; trattandosi di borghesi negli anni del boom, si pone pure al di fuori di mitologie arcaiche – se fa l’esegesi di Zappatore in una lezione di acrobatica sensibilità poetica e sociale, è perché la parte che fu di Merola riguarda noi tutti. Altra fortuna: Franchini, come notato, è il “cattivo” – colui che conosce fin da piccolo il sentimento puro dell’odio per la madre e la vergogna per lei tipica degli adolescenti; distanziandosi dai buoni sentimenti – e dalla retorica matrilineare di un Quasimodo e di un Ungaretti che paiono due idioti a fronte di tanto affabulare di infime ma non trascurabili catastrofi -, Franchini ha le mani libere per tracciare un affresco, oltre a un ritratto e a un’autobiografia per interposta persona, che arriva – come per un oscuro sortilegio – al puro meccanismo del vivere e del morire.
Il sortilegio sta nella scrittura: altro che giornalistese, quella di Franchini è una lingua ricca e severa, adulta e smagliante, una lingua come muscoli di lottatore, nitida nel gesto di dire le cose più difficili, in italiano o in napoletano, spesso agile a ricondurre il dramma a un irresistibile registro derisorio. Servita da continui cambi di velocità, presta al discorso (a dispetto di tutto) amoroso di un confronto impossibile la luce e la scansione di un’umanissima verità. La verità è da cercare fino all’ultima riga di questo presunto memoir, dopo che Franchini ha per lunghe pagine abdicato alla sua limpida chiarezza espositiva e ha lasciato spazio libero alla versione di Angela, la madre vecchia che parla a ruota libera e resta incagliata al suo mortuario flusso di coscienza dialettale come un’imprevista Penelope joyciana. Sembra che possa andare a chiudere così, Franchini, ma poi riprende saldamente il joystick di chi narra la storia, per lasciarci con una certezza – si può cercare di capire una persona vera solo trattandola come il personaggio da romanzo, “che è poi ciò che tutti siamo” se qualcuno si prende la briga di raccontarci – e con un paradosso che lo salva, almeno come figlio: “la letteratura sfiora la verità solo quando lo scrittore dice, alla fine, il contrario di quello che voleva dire all’inizio”. Ma un sorso di Strega, no?