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Giorgio Manganelli. Emigrazioni oniriche e altri spaventi

Al contrario dei quadri, i disegni non presuppongono la fede, la capacità di accettare l’esistenza di un altro mondo concluso in un’opera – “l’illusione di esistere” è dunque doppia, la nostra e quella attribuita a dei colori sparsi su una tela o su di un muro.

Invece, i disegni ci colgono disarmati senza aver bisogno di menzogne, sono schegge, impressioni fuggevoli, gesti incompleti, tracciati sulla carta che il disegnatore si trova per caso tra le mani, sono uno “schieramento di fantasmi” presi dalla voluttà di essere umani e intanto portano al nostro cospetto la minaccia e persino lo scherno della morte.

Dice qualcosa di simile Giorgio Manganelli, in quel suo modo non imitabile, sussiegoso e allarmato, dominato da un’esibita e notoria paura di tutto, nell’articolo dedicato a uno schizzo del Bernini – il pezzo è apparso su Il Messaggero nel 1988 e l’ho letto adesso in Emigrazioni oniriche (Adelphi 2024, a cura di Andrea Cortellessa).

Assomigliano a fulminanti sintesi e cortocircuiti a volte in risposta a domande ampie o persino rozze – finge Manganelli che lo siano: cosa è un quadro? Che cosa un disegno? Che fine farà l’arte contemporanea? – le pagine sull’arte, appunto, qui raccolte; si tratta per lo più di prose giornalistiche, o scritte per cataloghi, e in apparenza sono rapsodiche ed erratiche – ecco, con due aggettivi simili si esprimono i tromboni; e io, da anziano dilettante, non vorrei sprecare subito tutte le parole chiave o i motti del luogo comune-Manganelli, né citare il solito Ernst Bernhard per ritrovare il filo che ci porti non fuori dal Labirinto ma dritto tra le braccia del Minotauro: intanto, annoto che ho già buttato i bonus di “illusione“ e di “menzogna”…

Ma comunque: è impagabile visitare una mostra a Monaco di Baviera dove Manganelli incontra per noi il panciuto e sinistro signor Gottlob Biedermeier, “come a dire Teofilo Buonuomo”, un così pacifico tipo qualunque, rispettoso dell’autorità… Oppure, vagare tra le opere di Fattori, e scoprire che le cartoline drammatiche (il famoso Staffato), realizzate dall’affabile pittore svaniscono poi nella luce dei colori, in una disumanità che è stupore e meraviglia.

Manganelli, senza sembrare supponente, incomincia a scrivere per noi dopo che, con la flemma di turisti della cultura, ci crediamo sazi per aver ascoltato in cuffia la scolastica presentazione di un’opera o le gesta di un maestro; anzi, ci invita a levare subito gli auricolari, per farci lui lo spavento di metterci in contatto con messaggi provenienti da un altro tempo, un altro luogo, un altro spazio… Questi scritti pullulano quant’altri mai di volti di mummie e spettri terrorizzanti, di immagini del sottosuolo e mostri impietriti, di cinici magheggi e moniti assillanti riguardo la precarietà dell’esserci, si nutrono del rumore scricchiolante del nulla – ogni luminosa opera lo ricorda, il nulla, al pari delle cattedrali, per esempio il Duomo di Milano dall’antipatica e (non ci avevo mai pensato) molto arrogante facciata.

Ed è ancor meglio quando la sghemba versione di Manganelli su opere e cose, guardate in tralice e mai affrontate, viste di fronte, prevede contatti spericolati con la letteratura – per esempio, nell’articolo su Arturo Martini e l’occhio pulsante del sepolto vivo di Edgar Allan Poe.

Da tutta la raccolta si traggono nuove e spesso lapidarie riflessioni, e i fans del Manga saranno confortati da brulicanti esempi della genialità di uno scrittore poliedrico e umanissimo, sincerissimo e mistificatorio come nelle sue opere maggiori.

Bastano gli incipit a farci capire che l’arte minaccia la nostra tranquillità borghese – lo sa bene e lo spiega il nostro agitato e sempre all’erta improvvisato mentore. “Mostruosa macchinazione enciclopedica è fra tutte la pinacoteca, il museo delle opere d’arte”. “Firenze brulica di musei… Irretito nella sterminata macchina simbolica, stretto da presso da enigmi e dogmi di pietra…”. “Hokusai: l’Occidente che contempla l’opera di questo giapponese si scopre in uno stato di emigrazione onirica… può farci sospettare in noi stessi un mondo segreto… non v’è modo di tessere una giostra di sogni”. “‘Gli storici dell’arte hanno paura’ dice Arturo Carlo Quintavalle…”. “L’invenzione di Carol Rama rappresenta ai miei occhi un raro testo di sguardo dal sottosuolo…”. “La pittura di Toti Scialoja ci irretisce e aggredisce…”.

E Manganelli, al pari di un critico teppista, plausibile poiché esiste l’artista teppista, impegna la sua scrittura a de-costruire quell’enorme dispositivo autoritario che è la storia dell’arte, come spiega Andrea Cortellessa; Violenza immobile si chiama infatti il suo saggio finale, che cuce insieme in una visione globale le incursioni artistiche di Manganelli, allontanandolo da ogni ostentata moina di naïveté. Cortellessa ha posto in esergo un brano dove si manifesta la devozione dell’ateo scrittore per un angelo di cui è impossibile scorgere il volto; del resto in un’Annunciazione che Manganelli ama, quella del Pontormo, Maria è sorpresa dall’angelo di spalle, quasi fosse vittima di un agguato.

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