«Quando Welles girò La rosa nera nel 1951, pretese che il cappotto del suo personaggio fosse foderato di visone, sebbene poi nel film questo dettaglio non si sarebbe mai visto», ha raccontato il direttore della fotografia Jack Cardiff in Magic Hour, la sua autobiografia. «Nonostante i costi, i produttori assecondarono la richiesta. Alla fine delle riprese, il cappotto era sparito, ma non è difficile riconoscerlo indossato da Otello, con le parti in pelliccia ben in evidenza».
Otello, il Moro di Venezia di Orson Welles, l’uomo che voglio incontrare in Marocco, il fantasma che vorrei vedere a Essaouira, la cittadina che spalancò le braccia della sua fortezza per accogliere lui e tutti i guai produttivi suoi scomodi compagni di viaggio, se quattro anni vi sembrano pochi, per girare uno dei capolavori del cinema!
Al tempo, si era nel 1949, la città portava ancora in dote il nome portoghese di Mogador, case bianche da Grecia e mare inquieto da Bretagna. «Il periodo trascorso a Mogador è stato uno dei più felici della mia vita, nonostante le difficoltà», e se l’ha detto Welles, l’uomo larger than life per eccellenza, il ragazzo prodigio più inguaiato del mondo, sempre pieno di debiti, di donne, di grandiosi fallimenti, indegni tagli ai suoi film migliori, allora non si può non andarci.
Ma che ne sa della pasticceria Driss, dove s’ingozzava di dolcetti Orson, la ragazzetta spagnola che nonostante il Ramadam s’è messa in reggiseno, e a noi che le domandiamo, sul van in arrivo da Marrakesch, se sia interessata al pit stop alla fabbrica d’argan proposta dall’autista un po’ cialtrone, o non preferisca piuttosto fare tutta una tirata unica, risponde soave: «Boh, io voglio andare in spiaggia»? Spiace, tesoro, ma tira un vento bestiale, sulla spiaggia di Essaouira, e in marzo, l’acqua dell’Oceano è gelida. La ritroveremo al ritorno, piuttosto delusa, non quanto noi perché il bar Orson Welles, all’interno del suo Hôtel des Iles, è chiuso per restauri.
«A Mogador il cielo era stupendo, blu intenso, adatto ai contrasti che Orson voleva. Lui voleva il bianco e il nero, non gli piacevano le vie di mezzo, il grigio non lo voleva. In tutto il film non si dovevano inquadrare gli alberi e tutto quello che lui chiamava “le rotondità”, doveva essere tutto spigoloso», ha testimoniato Oberdan Troiani, operatore e anche direttore della fotografia.
Sono in molti ad aver raccontato quanto gli abitanti di Essaouira siano stati generosi con Orson. I sarti ebrei della Mellah cucirono su misura gran parte dei costumi di scena, con le scatole di sardine vennero assemblate le armature. La Skala della Kasbah e le sue stanze a volta si trasformarono in antiche prigioni, il mercato del pesce diventò un bagno turco – i cui vapori non erano altro che i fumi della riserva d’incenso della Chiesa portoghese di Essaouira – e proprio qui è stata girata una delle scene più dense del dramma shakespeariano. «Doveva essere fatta con costumi preparati a Roma. Arriva un telegramma: la Scalera, che produceva il film, era fallita, i costumi e tutto il materiale bloccato e non si poteva fare più nulla. Allora Orson improvvisò una delle scene più importanti del film, quella che si svolge nel bagno turco, comprando dozzine di lenzuola, avvolgendo tutti gli attori e le comparse; così la scena venne girata e diventò un classico del cinema. Quando Orson aveva una difficoltà, la risolveva a tutti i costi. Per cui, quando dicono che non finiva mai un film… beh! Era l’uomo più professionale che si potesse immaginare», raccontò una volta un altro uomo che ha lavorato con Welles, Alessandro Tasca di Cutò, personaggio su cui si potrebbe scrivere un libro, ma lasciamo a lui stesso l’autoritratto: «Il figlio del principe di Salina che, nel Gattopardo, lascia seccato Palermo per l’Inghilterra, è tratteggiato un po’ su di me, con la differenza che io partii per l’America».
E tutte queste persone, questi umani troppo umani – Micheál Mac Liammóir, l’attore irlandese che interpretava Iago, insieme al suo partner Hilton Edwards, che interpretava Brabantio, erano soprannominati Sodoma e Begorrah, per via delle scorribande notturne a caccia di vizi e vizietti – tutti loro si aggiravano per queste stradine, dove oggi i bambini che tifano Hakimi, l’eroe dei Mondiali 2022, giocano a pallone, dove oggi abitano anche molti stranieri nordici, di quelli che vanno ad abbronzarsi le carni bianche e avverano le loro chimere da sere fredde e grigie, li riconosci dall’immancabile cappello di paglia, i locali li salutano, gli vendono le spezie, il pesce.
Anche noi decidiamo di mangiarlo al porto, il pesce appena pescato, le stoviglie sono lavate alla bell’e meglio, però si griglia, il fuoco purifica, ci diciamo insieme a una coppia di simpatici pensionati francesi, con cui on peut partager la table. Ci fanno scegliere il pescato, e se sbagliano e hanno dato a te il gambero che era di un altro, te lo levano rapidi dal piatto e lo piazzano altrove, sorry. Ah, già, sorry, perché qui chi è giovane ha sempre qualche allergia al francese, è la lingua del colonialismo, quindi magari sui tavoloni di legno trovi l’Orangina, ma è meglio il sorry del desolé.
Nel 1992, quindi a 40 anni dalla vittoria al Festival di Cannes dell’Otello, hanno intitolato la piazza a pochi metri dal porto al genio americano, un omaggio sentito: piazza Orson Welles. Il film, alla fine, lui lo presentò sotto bandiera marocchina.«Non sapevo se mi avrebbero premiato o no. Perché non te lo dicono mai, se hai vinto. Fino all’ultimissimo minuto», racconta Welles a Henry Jaglom nel libro A pranzo con Orson (Adelphi), «Sai quando me ne accorsi? Quando vennero nella mia stanza al Carlton, disperati, e mi dissero: “Non troviamo nessuno che sappia l’inno del Marocco”». Perché l’avevo iscritto in gara come un film marocchino! Del resto, il Moro di Venezia…
Sì, è stata una grande storia d’amore, quella tra Orson ed Essaouira, set del film insieme a Venezia, Viterbo… «Iago esce dal portico della chiesa di Torcello, un’isola della laguna veneta, per entrare in una cisterna portoghese. Ha attraversato e cambiato continente nel bel mezzo di una frase. In Otello succede continuamente. Una scala toscana si prolunga in un terrapieno marocchino, per costituire uno spazio unico. Roderigo colpisce Cassio a Mazagan (attuale El Jadida, ndr) e Cassio restituisce il colpo ad Orvieto, a mille miglia di distanza».
Non proprio all true, parafrasando un altro celebre, travagliato, incompiuto film di Welles. Eppure, anche qui, a Essaouira, dove per Otello Orson creò tanti meravigliosi fake, spero, nel raccontarlo, di aver aderito alla frase pronunciata in punto di morte dal suo eroe. La pronuncio anch’io, a voce alta, con sprezzo del ridicolo, sulla fortezza battuta dal vento, e gabbiani giganti che mi svolazzano intorno: «Speak of me as I am» (Le foto di Essaouira sono di Giovanna Fumarola).