Per rispondere alla fraintesa obiezione di Schrödinger sul famoso gatto, che nella vulgata – come in certi erronei darwinismi passati nella cultura generale come verità (ma se l’uomo non è “evoluzione da” ma scimmia a tutti gli effetti nelle calcistiche dispute imitarne il verso è razzismo o insulto soprattutto se come di recente a Udine l’onda gravitazionale si muove da nero a nero?) – si trova a essere vivo e morto al contempo quando l’esperimento della scatola dimostrava invece l’assurdità dell’assunto, lo show come dicono i recensori laureati che non hanno letto Debord alla luce di Lacan (se tutto è spettacolo niente è spettacolo) mette in scena – districandosi tra fisica quantistica e Lewis Carroll, Giacomo Leopardi e Buzz Lightyear – quella “roba dell’altro mondo” che ad Alice nella favola famosa e qui a noi fa esclamare: “E pensare che fino a ieri le cose avevano un capo e una coda!”.
Una mamma astronauta, in seguito a un incidente, causa colluttazione con una precedente cosmonauta mummificata ma ancora orbitante attorno alla Terra, si trova così ad essere al contempo viva e morta in coabitazione col comandante che all’interno della scatola spaziale potrebbe a sua volta essere perito nell’incidente al posto suo. Una volta tornata a casa s’accorgerà d’essere, in compagnia di altri astronauti (per tutti la mummia orbitante e lo stesso comandante) viva sì ma in uno stato di sovrapposizione quantistica per il quale si ritrova a coabitare in uno spazio familiare con marito e figlia della se stessa perita nell’incidente. Ci vorrà Alice, disposta a chiudersi intrepida nella scatola-armadio-tana-del-Bianconiglio di una sperduta baita per stabilire un contatto tra le due bambine imprigionate nei problematici universi paralleli di chi è orfana e di chi deve relazionarsi con una madre non sua e che non la riconosce, dall’odore, come sua figlia perché si possa giungere – in un relativo happy end – a un’apparente conclusione.
Jo (o è Noomi Rapace che farebbe una gran coppia con lo Stregatto?) è infatti prigioniera del sistema al quale appartiene e perciò come il gatto per Schrödinger non può essere viva o morta al contempo perché la sovrapposizione non è del felino ma dell’intero sistema. Ragione per la quale i fisici teorici fanno fatica a penetrare nel senso comune e a minarne le basi e agli sceneggiatori non resta che buttarla sullo stress traumatico o sul soprannaturale. Solo a un osservatore esterno – un filosofo che non abbia necessità di riscontri reali, uno scrittore onnisciente e uno spettatore sgamato – può risultare evidente chi sia la Jo viva o la Jo morta, e sapere quale sia la verità nel mentre lo show gioca a mischiare le carte: Henry/Bud hanno uguale DNA, la Jo nello spazio mostra il suo volto di viva e morta e Alice – nell’infinito gioco tra vero e finzione – si sdoppia in due sorelle apparentemente uguali per far saltare il banco dei giurati. Ma quello stesso osservatore – per l’interpretazione a molti mondi – è a sua volta immerso nel sistema che osserva e quindi da subito nella condizione di tutti coloro che semplicemente non trovano ragioni pratiche a sapere d’essere – causa quotidiani sliding doors – “moltezza” in universi contigui (ma ben farebbero a coltivare moltitudini là dove sono) quando con candore si ammette pure che la verità è merce e per giunta rara.
Quel che appare infine è che noi tutti siamo vivi e morti allo stesso tempo, condannati fingendo di non saperlo a vivere come atomi circondati dai nostri se stessi morti che giorno dopo giorno ci ruotano attorno, qui e ora e forse per sempre. Verso l’infinito e oltre.
Constellation è una sci-fi psychological thriller television series creata da Peter Harness, basata su un concept di Sean Jablonski. Su Apple TV+
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