Ho guardato su YouTube delle vecchie partite di squash del pakistano Jahangir Khan e l’ho ammirato in immagini simili a filmini amatoriali, mentre giocava chiuso in quella sorta di gabbia trasparente di plexiglas. Jahangir Khan, con la sua racchetta dalla testa sottile, ha vinto 555 partite consecutive, entrando nel Guinness World Records.
Cercavo così di capire qualcosa in più delle tre ragazzine che troviamo, orfane di madre, schierate sulla T di un campo di squash a Western Lane, centro sportivo fuori Londra. Le incoraggia ad allenarsi ogni giorno il padre, attonito vedovo, di fatto incapace a comunicare con loro o con chicchessia.
Il nome di Jahangir Khan, insieme a quello di altri campioni, riecheggia spesso nella testa di Gopi, la figlia piccola, poco più che decenne. È la più brava nel gioco e la più sensibile (quasi sensitiva) delle tre nel raccontare, mentre ne diventa lei stessa consapevole – con frasi brevi e in capitoli brevi, quasi in punta di penna, per episodi infimi e non sempre all’apparenza significativi – la sua storia, che si staglia sullo sfondo della comunità indiana in Gran Bretagna.
Lo sport come metonimia dell’esistenza, in cui ti senti e sei sola, pensa Gopi, ma forse no, e un tiro buono ti lascia dentro qualche cosa… La sport come disciplina, o passatempo per chi è oppresso da un dolore, e inaspettata chiave di ricerca interiore che permette un insight di sé e del circostante – non per niente il campione Jahangir era ritenuto un telepata che entrava nel pensiero dell’avversario e ne carpiva in anticipo la strategia dei colpi.
Mi ricordo quando lessi per la prima volta una storia di anglopakistani a Londra. Era il Budda delle Periferie di un romanziere allora emergente, un certo Hanif Kureishi: uscì nel 1990 per Mondadori e un caporedattore del settimanale dove lavoravo mi fece fare uno stupido pezzo sul trend della letteratura dell’immigrazione, mescolando il best seller di Kureishi (indubbiamente un’opera letteraria) con due testimonianze (allora non si chiamavano ancora memoir) di vu’ cumprà sbarcati in Italia – vu’ cumprà era il termine razzista in cui erano nominati allora i migranti. Non so che cosa c’entrassero l’uno con gli altri.
Questo per dire che T di Chetna Maroo è un’opera letteraria, anche se parla di vite possibili e pure probabili. Così è stata costruita e così va consumata, per quello che accade o non accade, intanto che la protagonista va a lezione di gujarati, una delle lingue ufficiali dell’India, o in visita dalla zia tradizionalista a Edimburgo, intanto che si allena di nascosto con Ged, ragazzino bianco; Gopi gli si muove intorno giocando, “sudando, passando le mani sullo stesso pezzo di muro macchiato, prima lui, poi io”.
T è un breve romanzo di formazione, di 150 pagine, ben scritto e meglio montato, che si svolge, nutrito della timida grazia della protagonista, all’interno del dolore e dello spaesamento lasciato da un lutto – Gopi sente prim’ancora di vedere, svela con cautela nei suoi moti interiori, nelle sue intuizioni, i fatti, prim’ancora che questi si esplicitino. Gopi misura in sé la perdita della madre e la vive attraverso ciò che capisce delle sorelle e del padre, solo e stranito, il quale forse vede davvero la moglie morta o almeno così si comporta. Il padre prudente e misurato che si scopre, d’improvviso, pronunciando la frase più triste di tutta la sua vita: “Le bambine. Le ragazze. A volte le guardo e penso che mi divoreranno”.
Lo squash è un rito apotropaico e un costruttore forzato di senso per le esistenze sospese dei miseri mortali di T, è il futuro da scoprire, quando finalmente Gopi si trova alla resa dei conti davanti al campo trasparente di Durham, dove giocherà in un torneo che è stato tanto atteso.
Chetna Maroo amplia a poco a poco l’orizzonte di Gopi, dentro e fuori dalla coesione di una famiglia e di un milieu senza patria, dove tutti i personaggi, compresi la zia Ranjan e lo zio Pavan, sono misteriosi come possono apparire a una bambina…. Questo è il massimo di realtà concesso al romanzo e soltanto raccogliendo gli indizi forniti da Gopi io posso innescare il mio personale reload di lettore. E applaudire semmai Chetna Maroo per come scioglie un avvenimento fisico – ciò che succede nella serata al Luna Park – nel vapore di una visione della sua protagonista. Niente minimalismo grigio o autobiografismo narcisista.
T (Western Lane) è il primo romanzo di Maroo, british indian nata in Kenya, shortlisted per il Book Prize 2023. È stato tradotto molto bene da Gioia Guerzoni per Adelphi.