A volte i libri non li scegli, ti vengono incontro scodinzolando come cagnoni in cerca di carezze. Sono i libri che mai avresti comperato né tantomeno letto. Cuori e denari di Giorgio Ruffolo che Einaudi ha pubblicato nel lontano 1999 – forse per motivi che esulano dall’editoria – è uno di questi. Mi capita tra le mani a un passo dall’evento più drammatico che possa capitare a un libro, quando è giunta l’ora di gettare i volumi dei nonni e dei padri. E pure quelli – chissà, forse mai letti – dei figli. La mattanza – bisogna far spazio ad altri libri, altre letture, altri sogni – si consuma quando si chiudono le case dei vecchi e si è costretti a scegliere cosa salvare (“…un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra /al piumino, alla lima: / un topo bianco, /d’avorio”).
Cuori e denari. Dodici grandi economisti raccontati a un profano s’era salvato grazie alla sigla editoriale. Chi ama i libri sa che i saggi godono di una specie di goodwill, credito generato dall’autorevolezza dell’editore. Un po’ quello che accade alle auto: se è XY non può essere una merdaccia. Quindi, nonostante il titolo da serie televisiva americana, sembrava impossibile trattarsi di puttanata totale. (C’è da dire che il bibliofilo dà ai libri sempre un’ultima – e a volte pure una penultima – possibilità: chissà, magari imparo qualcosa; magari cose che non so di non sapere, e leggendo mi diverto pure…). Invece.
Invece Cuori e denari è un meticcio sgraziato come quei cagnoloni frutto di incroci casuali quanto improbabili, il tentativo di rendere la storia del pensiero economico attraverso il ritratto di dodici protagonisti della triste scienza. Dodici come gli Apostoli? E perché mai manca proprio David Ricardo, maestro della scuola classica, imprescindibile precursore di Marx, riferimento costante di Sraffa? Forse perché tredicesimo avrebbe rotto la simmetria? O perché l’autore non ha trovato il materiale necessario a imbastire un minimo di racconto? Mistero. Ma al di là del tredicesimo che manca, Cuori e denari lascia comunque il lettore a bocca asciutta. La tecnica narrativa basata sul bozzetto, sull’aneddoto e sul pettegolezzo racconta qualche spicciolo della vita degli economisti ma non spiega la sostanza teorica delle loro concezioni né l’impatto sulla realtà: la divulgazione scientifica è mestiere difficile assai. Un approccio che ricorda l’impianto della Storia d’Italia di Montanelli e Gervaso, una delle mie letture da ragazzo; tuttavia, se la scrittura di Montanelli è garanzia di piacere tale da compensare l’insignificanza scientifica dell’opera, la prosa di Ruffolo è legnosa e barocca come un supplì avanzato.
E allora perché non l’hai gettato, perché non l’hai venduto al Libraccio, perché te la meni e ce ne parli? Cari, carissimi quattro amati e amabili lettori, è successo che scansato dopo due pagine il capitolo su Marx (sono reduce dal bellissimo saggio di Isaiah Berlin e non volevo guastarmi la bocca) mi è caduto l’occhio come direbbe Ruffolo su Piero Sraffa. Figura di spicco assoluto nel desolato paesaggio italiano degli anni Trenta e Quaranta, interlocutore di riferimento a Cambridge di Keynes e Wittgenstein, di lui so poco e nulla. Sicché m’intigno a leggere, sia pur con lo spirito di chi non si aspetta gran che. Invece.
Invece il periodare faticoso e affaticato di Giorgio Ruffolo lascia il posto ad una prosa sciolta e coinvolgente. La narrazione acquista lo spessore dell’autenticità. L’autore sta raccontando eventi che fanno parte della sua formazione umana e politica: la storia della sconfitta dell’Italia liberale, l’avvento del fascismo, gli anni della dittatura, del confino, del carcere, dei crimini compiuti dal regime nei confronti di chi ha l’ardire di resistere al fascismo trionfante. La storia di Piero Sraffa è indissolubilmente legata a quella di Antonio Gramsci, di cui è amico fedele e sostenitore caparbio e capace. Confesso di essermi commosso nel ripercorre la sorte di uomo malato e fragile, la cui mente libera e potentissima gli aveva fatto comprendere, tra i pochi insieme a Rosa Luxemburg, l’abisso in cui stava per sprofondare il bolscevismo leninista. Il solo dirigente comunista che aveva avuto la lucidità e il coraggio morale prim’ancora che politico di avvertire del pericolo i compagni russi. Sraffa non abbondonerà mai il piccolo uomo carcerato dal fascismo affinché alla sua mente fosse impedito di pensare, come da esplicita richiesta di Mussolini. Un uomo solo, malato, che nei lunghi anni della carcerazione conviverà con l’atroce sospetto di essere stato abbandonato dal suo partito; quel partito la cui guida era stata presa con sicura mano sovietica da Palmiro Togliatti, il dirigente che attraverserà l’orrore staliniano con l’aplomb di James Bond quando si spazzola i revers dello smoking.
Un’ultima cosa. Narrando di Sraffa, Ruffolo rende assai bene anche il clima dei primi anni Venti in Italia: il settarismo massimalista e la reazione fascista; l’inerzia afona dei partiti democratici e la potenza incontenibile della demagogia populista. Le stesse forze in campo oggi. Come dare torto ai teorici della lunga durata?
Credit. Non siamo riusciti a risalire al copyright di foto di Piero Sraffa. Nel caso, la rimuoveremo