Questa storia comincia dalla fine.
È il 5 aprile 1965: a Santa Monica, presentata da Bob Hope, si svolge la 37° edizione della cerimonia di premiazione degli Oscar. Il film che conquista il maggior numero di statuette è My Fair Lady: miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista, miglior fotografia, miglior scenografia, migliori costumi, miglior sonoro e, ovviamente, miglior colonna sonora. Il film ottiene anche quattro nomination: miglior attore non protagonista – il comico inglese Stanley Holloway, per il ruolo di Alfred Doolittle – miglior attrice non protagonista – Gladys Cooper, una grande del teatro inglese già all’inizio del Novecento, per il ruolo della madre del professor Higgins – infine miglior sceneggiatura non originale e miglior montaggio.
Naturalmente noi ricordiamo quel film soprattutto per Audrey Hepburn, per il suo elegante vestito bianco e nero, per lo splendido cappello dalla tesa amplissima, che solo lei può portare con una tale raffinata naturalezza. Ma lei non riceve neppure una nomination: vengono scelte Kim Stanley, per Ventimila sterline per Amanda, Debbie Reynolds per Voglio essere amata in un letto d’ottone, Anne Bancroft per Frenesia del piacere, Sophia Loren per Matrimonio all’italiana e Julie Andrews per Mary Poppins. Francamente credo che nella cinquina ci sarebbe potuta stare anche Hepburn, ma l’Academy ha deciso che lei, e solo lei, deve essere “punita”. Vediamo perché.
Quando Jack Warner – il quarto e l’ultimo dei Warner Brothers – decide di fare un film dal musical che ha avuto un gradissimo successo a Broadway e nel West End, ne affida la regia all’esperto George Cukor e vuole confermare nel ruolo del professor Higgins l’attore inglese Rex Harrison, famoso anche al cinema – l’anno prima è stato Cesare nel colossal Cleopatra – ma si rifiuta di affidare il ruolo di Eliza a Julie Andrews, che ha riscosso un grande successo a teatro, ma è sostanzialmente sconosciuta al pubblico cinematografico. Warner pensa invece alla star di Vacanze romane, Sabrina, Co
Accetta anche che Marni Nixon le “presti” la voce nei numeri musicali. Marni negli anni si è meritata il soprannome the voice of Hollywood perché le tocca spesso, anche senza essere accreditata, di “far cantare” altre attrici, come Natalie Wood in West Side Story, o di aiutarle, come ha fatto con Marilyn: è Marni a cantare le note più alte in Diamonds Are a Girl’s Best Friends.
Il film è un successo mondiale, anche per la grazia inarrivabile di Audrey Hepbun – forse non molto credibile come sboccata fioraia londinese, ma incantevole quando si trasforma nella “creatura” del professor Higgins – ma Audrey è l’unica a “pagare” per l’ostinazione di Jack Warner – che ritira l’Oscar per il film – a volere una star, a garantirsi un grande successo di botteghino.
Per Julie Andrews quel rifiuto è l’inizio di una carriera cinematografica sfolgorante. Walt Disney vuole che sia proprio lei – e solo lei – la protagonista del suo nuovo film, dedicato al personaggio inventato da P.L. Travers, tanto da essere disponibile a posticiparne la lavorazione se fosse stata scelta per My Fair Lady. È una scelta azzardata, ma assolutamente indovinata, che segna il successo del film e di Andrews, che vince, meritatamente, l’Oscar. E, con una punta di malizia, ringrazia Jack Warner per l’opportunità che le ha offerto di essere Mary Poppins.
Per la cronaca Marni Fox è accreditata anche nel film di Disney: interpreta le oche che cantano con Mary e Bert.
Ultima curiosità di quell’edizione degli Oscar: Ieri, oggi e domani di Vittorio De Sica vince – anche in questo caso meritatamente – il premio per il miglior film straniero. E nella categoria sceneggiatura originale ottengono una nomination Age, Scarpelli e Mario Monicelli per I compagni, uno dei più bei film italiani di quegli anni, che curiosamente ha più fortuna negli Stati Uniti che in patria.
Adesso facciamo un passo indietro. È il 2 novembre 1950: muore all’età di novantaquattro anni George Bernard Shaw. Fino a quando il grande commediografo irlandese è vivo è impossibile mettere in musica Pigmalione, perché lui ha dichiarato espressamente che non vuole che la sua commedia diventi un musical. A dire il vero non è proprio facile trasformare la storia di Bernard Shaw in una commedia musicale: mancano il lieto fine, la storia d’amore tra i due protagonisti e una sottotrama comica. Ad esempio Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II – due che di musical se ne intendono – pensano che sia davvero impossibile.
Il paroliere Alan Jey Lerner e il compositore Frederic Loewe invece si sono convinti di poter vincere quella sfida. E hanno ragione. Per My Fair Lady scrivono alcune delle loro più belle canzoni, che sono rimaste nella storia della musica. I protagonisti sarebbero dovuti essere Noel Coward, l’elegante commediografo inglese e brillante attore teatrale, e la texana Mary Martin, che è stata la protagonista a Broadway di due grandi successi come South Pacific e The Sound of Music, due capolavori della “ditta” Rodgers&Hammerstein. Coward rifiuta, ma suggerisce il nome del giovane collega Harrison, anche se in teatro non ha mai cantato. Anche Martin rifiuta – probabilmente per paura che il musical non riesca a funzionare – e quindi la scelta cade sulla giovanissima Andrews (che anni dopo sarà anche la splendida protagonista della versione cinematografica di The Sound of Music, conosciuto in Italia con l’infelice titolo Tutti insieme appassionatamente). My Fair Lady registra 2.717 repliche a Broadway e 2.281 a Londra. È inevitabile che i “falchi” di Hollywood se ne vogliano impadronire: ma questa è una storia che ho già raccontato.
Facciamo un altro passo indietro. È il 23 febbraio 1939: nella sala da ballo di un grande albergo di Los Angeles si svolge la premiazione dell’undicesima edizione degli Oscar. Vince il film L’eterna illusione di Frank Capra e Walt Disney riceve un premio speciale per Biancaneve: un Oscar attorniato da sette piccole statuette. Tra i premiati c’è anche un nome che apparentemente non c’entra nulla con Hollywood: George Bernard Shaw, per la migliore sceneggiatura non originale del film Pigmalione. Il grande commediografo – nato diversi anni prima del fortunato esordio del cinematografo, considera quel premio una sorta di affronto, soprattutto per chi glielo ha assegnato e naturalmente non va a Los Angeles a ritirarlo. Comunque è l’unico scrittore a ricevere sia il Nobel che l’Oscar. Almeno fino al 2016, quando l’Accademia di Svezia premia Bob Dylan, che ha già vinto un Oscar per la miglior canzone, Things Have Changed.
Il problema di Bernard Shaw è soprattutto il lieto fine del film. Quando nel 1936 il produttore Gabriel Pascal convince il grande autore a lasciargli i diritti della sua commedia per farne un film, assicurandolo che avrebbe avuto voce in capitolo su ogni aspetto dell’opera, Bernard Shaw è costretto a cedere proprio su questo unico punto: alla fine Eliza deve tornare, o almeno gli spettatori devono sperare che torni.
Bernard Shaw, che ama il cinema e ne riconosce il potenziale, partecipa attivamente alla sceneggiatura, prepara nuovi dialoghi, scrive la scena del ballo all’ambasciata, che non c’è nella commedia (e che sarà l’occasione per Loewe di scrivere un divertente valzer). L’Oscar, indipendentemente da quello che egli pensa dell’Academy, gli spetta. Non vuole che Leslie Howard interpreti il professor Higgins: troppo bello, troppo romantico, le donne avrebbero voluto che Eliza alla fine lo sposasse. Bernard Shaw non la spunta e anche grazie a Pigmalione, l’attore inglese ottiene l’anno successivo la parte dello sfortunato e innamorato Ashley in Via col vento. Invece il commediografo riesce a ottenere che Eliza venga interpretata nel film dalla giovane attrice inglese Wendy Hiller, che ha impersonato quel ruolo a teatro a New York. Bernard Shaw è stato molto colpito dall’interpretazione di Hiller, che, grazie al sostegno del commediografo ottiene altre parti a Broadway nelle sue opere. Anche per quel che riguarda questo film il produttore avrebbe voluto un’attrice più famosa, ma su questo punto Bernard Shaw non vuole cedere.
E così Wendy Hiller comincia anche una bella carriera cinematografica, che la porta a vincere l’Oscar come miglior attrice non protagonista nel 1959 per il film Tavole separate, anche se noi la conosciamo soprattutto per essere il “maestoso rudere”, ossia la principessa Dragomiroff in Assassinio sull’Orient-Express – quello “vero”, del 1974, con la regia di Sidney Lumet.
Ed eccoci all’ultimo passo indietro, stavolta molto indietro. Siamo a Roma, ai tempi dell’imperatore Augusto. Ovidio nelle Metamorfosi racconta la storia di Pigmalione. Ovidio, come spesso ama fare, modifica un po’ il mito. Mentre secondo la tradizione Pigmalione è il re di Cipro che si innamora di una statua che poi prende vita, il poeta augusteo racconta che è uno scultore che, scandalizzato per i comportamenti troppo “liberi” delle sue concittadine, rifiuta il matrimonio e le donne. Un giorno però Pigmalione realizza una statua d’avorio che rappresenta una bellissima donna, la donna più bella che avesse mai visto. E se ne innamora, la adorna di vesti bellissime e di gioielli, la accarezza, la bacia, dorme insieme a lei. Fino al giorno in cui Afrodite, per esaudire le sue preghiere, trasforma quella statua in una donna. Come sempre Ovidio è geniale e raffinato nella descrizione di queste metamorfosi, riesce a descrivere come reale quello che sappiamo che non può esserlo; racconta la trasformazione come l’ha sentita Pigmalione: avverte l’avorio cedere al tocco delle sue dita, coglie con le labbra il calore della carne dell’amata, e solo alla fine vede la statua trasformata e animata.
Vorremmo noi maschi essere come Pigmalione o come il professor Higgins? Immagino che ciascuno di noi abbia avuto questa tentazione almeno una volta nella vita. Purtroppo molti vogliono che le “loro” donne siano le creature che si sono immaginati, ed esercitano questa forma di violenza, non meno pericolosa e crudele di quella fisica. Hitchcock, che soffriva del mito di Pigmalione, ci ha fatto un film, Vertigo.
Poi, quando siamo fortunati e non troppo stupidi, capiamo che amiamo una donna proprio perché non è quella che ci saremmo immaginati, non è quella “perfetta” che noi avremmo costruito in laboratorio, ma l’amiamo proprio perché lei è così. E naturalmente non è quella che deve portarci le pantofole.
- Luca Billi ha pubblicato il romanzo Anything Goes (Villaggio Maori Edizioni). Anything Goes è anche uno spettacolo teatrale, per saperne di più qui
(Credit: X111 by Raoul Luoar is licensed under CC BY 2.0. Prima stampa seriale americana del Pigmalione.File:Audrey Hepburn My Fair Lady Dress.jpg by popculturegeek is licensed under CC BY 2.0. File:Portret van George Bernhard Shaw George Bernard Shaw (titel op object), RP-P-2010-329-46.jpg by Rijksmuseum is marked with CC0 1.0.)