I ricordi, individuali o collettivi, non sono forse paragonabili a delle vecchie fotografie? Dice la scrittrice ucraina Katja Petrowskaja a proposito di uno scatto che raffigura una bambina georgiana: “Forse i ricordi assomigliano a questa immagine: un po’ sfocata e in bianco e nero, documentaria e nel contempo illusoria”. Le fotografie danno l’impressione di fornire un punto fermo alla memoria. “Volgiamo lo sguardo all’indietro, e c’è ancora tutto: la bambina che ci guarda fiduciosa, le mucche che tornano nella stalla, il cane indaffarato con le pulci. Presto scenderà la nebbia e nasconderà il villaggio montano di Tagveti (in georgiano villaggio dei topi). L’oblio è all’opera”. Appunto.
Petrowskaja sa di aver puntato sulle fotografie in un generoso azzardo, fallibile in partenza. Il verbo “immortalare” non esiste se non in una versione per noi frustrante o si evidenzia nel mistero di una visione parziale, senza un prima o un dopo che la spieghi. Come accade per l’immagine di altri due bambini intenti a giocare sul Mar Nero, tratta dalla serie Black Sea della britannica Vanessa Winship. “Ogni foto è il frammento di un mondo strappato al tempo e allo spazio” commenta Petrowskaja. “Possiamo vedere solo questo frammento, che cerca di presentarsi come l’intero mondo o come sua parte rappresentativa – se non come metafora, almeno come pars pro toto. Ogni foto mette in salvo qualcosa di transitorio. Nulla sarà più come nel momento immortalato (sic) qui: quello in cui i bambini nel porto di una città sul Mar Nero spalancarono gli occhi, stupefatti”.
Petrowskaja ne La foto mi guardava (Adelphi, tradotto da Anna Vigliani) ha riunito articoli apparsi fra il 2015 e il 2021 sulla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung. In ognuno di questi ha raccontato un’immagine, prediligendo fotografie molto diverse tra loro – private, pubbliche, opere d’arte o scatti strappati all’insignificanza del caso; fotografie in cui si è imbattuta in un museo, in un libro, in un mercatino, foto d’autore o riaffiorate da un album personale. Il comune denominatore: da queste immagini Petrowskaja si è sentita scelta e in qualche modo “chiamata”, quasi costretta a provarsi nella pratica dell’ecfrasi.
Altre volte le immagini le sbarrano la strada, quasi aggredendola oppure, a sorpresa, le permettono di vedere posti e facce sconosciuti. L’immagine di un minatore del Donbass è addirittura corsa incontro a Petrowskaja. “La foto mi guardava. Quella vicinanza mi ipnotizzava, ne ero addirittura spaventata. Non sapevo nemmeno dove si trovasse Krasnoarmijs’k, eppure quell’uomo era lì davanti a me, fin troppo vicino, e mi soffiava in faccia il fumo della sua sigaretta”.
Gli sconosciuti, invece, vivono vicino a noi, forse siamo noi stessi. Valga a esempio la bellezza di questo ritratto ricreato con le parole. “Una donna è alla finestra. Nella sua stanza. È sprofondata in se stessa. D’una bellezza magica. Attende il futuro, ricorda il passato? Gli occhi sono puntati su qualcosa, tranquilli e un po’ diffidenti. Le mani toccano il vetro – un confine nettamente percepibile, che appare tuttavia confuso e fragile. Il mondo trema sotto la punta delle sue dita. Intorno a lei si produce un movimento leggermente increspato, come se la donna toccasse l’acqua, non il vetro. Il mondo esterno si fonde con il suo mondo interiore” – potrebbe essere l’ecfrasi di un quadro rinascimentale, lo è del fotogramma di un film della “danzatrice, teorica del cinema, regista ed esperta di riti vudù Maya Deren”.
La fotografia apre uno spiraglio sull’intimità così come non si arrende di fronte alle porte chiuse da un veto sociale. Petrowskaja dialoga con Loredana Nemes, che nella serie Beyond ha raffigurato posti inaccessibili a una donna. “Molti locali turchi o arabi di Kreuzberg, Neukölln e Wedding sono riservati agli uomini. Bevono tè, guardano le partite di calcio, parlano e giocano. Siedono dietro i vetri lattiginosi dei loro caffè per soli uomini e restano inaccessibili, quasi invisibili ai passanti che sfiorano le loro vite. Anche se molti di noi vivono nelle vicinanze di quei luoghi, difficilmente entrano in contatto con chi li frequenta”. Neppure è capitato spesso di fissare lo sguardo su un indubitabile “simbolo di straniamento” come una catena di montaggio tutta al femminile (le ”donne della Krups” della foto di Michael Wolf) . “Il nostro sguardo scivola lungo il nastro, in direzione della finestra che manda luce. Le donne sono tutte chine sul loro lavoro. Il nastro trasportatore scorre, e il tempo passa, il tempo del lavoro. Si vedono molte teste femminili, ma non i volti”.
Questo di Petrowskaja è un libro pieno di storie che hanno spesso a che vedere con la Storia del Novecento e oltre, con le ferite, le speranze infrante, le fedi svaporate negli anni. Le fotografie scelte da Petrowskaja chiamano anche noi, per il tempo che leggiamo, a importanti incontri rimasti impressi su pellicola, ritrovando la piccola Mira, lei che sopravviverà al ghetto di Varsavia, in un momento felice (“Nella città libera di Danzica una bambina sta andando a scuola, in prima elementare. Siamo nel 1930. Il suo cartoccio è pieno di caramelle e cioccolatini per addolcire la vita”) o decifrando come in un film l’America miserabile del grande Robert Frank. Le fotografie del libro danno inquietudine o recano in apparenza un po’ di pace, come quando resuscitano vecchi dimenticati eroi, sebbene destinati alla sconfitta come tutti gli eroi umani. Ma proprio mentre voltiamo l’ultima pagina, La foto mi guardava prende un significato in più, non prevedibile quando Petrowskaja lo scriveva forse con lo scopo di sottrarsi per un momento all’odierno bombardamento di foto digitali. Dice Petrowskaja nella postfazione dedicata alla guerra in Ucraina, scoppiata a libro stampato: “La guerra uccide, nega il senso, la normalità e la varietà, tutto ciò che noi amiamo. La guerra potrebbe giungere a cancellare le nostre parole sussurrate. Vorrei opporre alla guerra queste miniature, questi piccoli frammenti, alla ricerca di una voce”.
Post scriptum. Il libro di Katja Petrowskaja La foto mi guardava (Adelphi 2024, Fabula 400, pagine 259) si può leggere anche senza andare in ordine, dal primo scritto all’ultimo, ma aprendo a caso, scorrendo le pagine avanti e indietro a piacere, scegliendo il testo in base a quello che ci attrae o ci incuriosisce in una fotografia. Funziona lo stesso.
In apertura, fotogramma tratto dal docu In the Mirror of Maya Deren di Martina Kudláček (2001). Per gentile concessione della Navigator Film