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Allonsanfàn
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John Huston, una vita da film. In Un libro aperto, la sua storia del cinema

Tendo a invidiare l’uomo che porta avanti una vita sola, con un solo lavoro e una sola moglie, in un solo paese, sotto un solo Dio. Può non essere un’esistenza molto eccitante, ma almeno quell’uomo, il giorno che ha settantatré anni, si rende conto della sua età.

Credere o non credere alle parole degli artisti larger than life, dei giganti della letteratura, della pittura, del cinema, quando esprimono una tensione sentimentale verso esistenze da impiegati delle Poste – non me ne vogliano, è solo un esempio di normalità standard – nonostante tutta la loro vita, invece, sia stata all’insegna dell’iperbole? Sono abbastanza certa che John Huston ci credesse davvero, leggendo la sua monumentale autobiografia, John Huston – Un libro aperto, rieditato da La Nave di Teseo e con prefazione di Alberto Pezzotta. Succede, si brama sempre la possibile variante, ma al regista americano sono state date in sorte mille vite, altro che una sola e sotto un solo Dio.

Una breve sintesi di extra-ordinarietà ce la regala lui stesso poche righe più avanti, quando si descrive elencando le cinque mogli, le molte relazioni spesso più importanti dei matrimoni, la caccia, le scommesse, i purosangue, la pittura, le collezioni, la boxe. E gli oltre sessanta film di cui è stato regista, attore o sceneggiatore.

Huston, attore agli esordi

5 agosto 1906 – 28 agosto 1987 recita la targa sulla sua tomba all’Hollywood Forever Cemetery: il mese stesso che lo ha visto per la prima volta alla luce e poi portato al buio non è certo da mezza stagione di una volta. Caldo, anzi torrido, specie in Messico, terra dove Huston ha girato film e scelto di vivere parte della sua vita. Agosto da presagio di situazioni estreme: per esempio, il rischio di morire da bambino, a dieci anni o giù di lì. Gli diagnosticano un “cuore grande” (e lui scriverà: «È un cuore grande, non c’è dubbio»), quindi cardiopatia, sbagliando; e nefrite, questa vera, ma non grave. Tutto a causa dei cerchi neri sotto agli occhi, gli stessi che saranno per sempre il marchio di fabbrica sotto a una delle più belle facce del Novecento.

Reah, sua madre, da Nevada, Missouri, lo porta a Los Angeles, California. E chi incontrano all’Hotel Alexandria, loro primo alloggio? Charlie Chaplin già famosissimo, che venuto a sapere del bimbetto malato, sale a trovarlo nella sua stanza. Gli spiega alcuni trucchetti del cinema, si esibisce per lui in piccoli giochi di magia. Molti anni dopo, quando Huston ricorderà a Chaplin questa buona azione, incredibilmente lui svicolerà, quasi infastidito.

Con Marilyn sul set di The Misfits

È solo uno dei grandi nomi che scorrono nelle sue pagine. Basti pensare che Huston ha diretto Marilyn Monroe nel suo ultimo film, Gli spostati (The Mistfits, 1961) nel cast anche Montgomery Clift e Clark Gable. «Io non ho mai sentito fisicamente il tanto pubblicizzato sex appeal di Marilyn, ma sullo schermo questo veniva fuori», racconta. «Era profondamente triste vedere quel che stava accadendo a Marilyn. Una volta ne parlai ad Arthur Miller. “Devi tenere Marilyn lontana dagli psicofarmaci. Sei suo marito, sei l’unico che può farlo. Se non lo fai, ti sentirai in colpa finché vivi. Se non si ferma subito, entro due o tre anni finirà in clinica, o sarà morta!”. Gli facevo la paternale, senza rendermi conto che lui aveva già fatto tutto quanto era in suo potere ed era allo stremo». Il regista era fin troppo ottimista, in realtà ci volle meno di un anno: nell’agosto del 1962, come sappiamo, Marilyn effettivamente lasciò questo mondo, in un alone di mistero.

La solitudine del set

Uno dei film più famosi di Huston è La Regina d’Africa (The African Queen, 1951), non fosse che per la mitologia sulla sua ossessione per la caccia all’elefante, le difficili condizioni incontrate in Congo, le zanzare, la diarrea, i malanni di cui fu vittima Katharine Hepburn, alla quale venne suggerito, con successo, di ispirarsi a Eleonore Roosvelt nel disegnare il ritratto di una zitella bigotta, conquistata dal compagno di viaggio ubriacone, un Humphrey Bogart decisamente in parte. «Bogie non amava l’Africa. A differenza di Katie, non considerava tutto questo un’avventura», commenta Huston, descrivendo un tipico uomo metropolitano. «Non venne mai a caccia con me. Preferiva sedere nel campo, con il bicchiere in mano, e raccontare storie. Ho il sospetto che non sarebbe andato mai in un posto come l’Africa se non con me. Con Bogie non contava tanto dove recitavi ma come recitavi, e lui avrebbe voluto solo essere a casa al più presto. Amava la vita notturna di Londra o di Parigi, ma quando si trattava di recitare, non vedeva perché non si sarebbe potuto fare con tutta comodità in uno studio».

Giganti. Huston con Hemingway

Meno noto è il fatto che Huston abbia girato anche documentari di guerra per conto dell’esercito. In Italia, La battaglia di San Pietro, che alla fine si beccò la classificazione di “segreto”, perché troppo crudo, estremo, potenzialmente demoralizzante per i soldati americani. «Mi fu detto da uno dei portavoce che il film era “contro la guerra”. Io replicai pomposamente che se mai avessi fatto un film a favore della guerra speravo che qualcuno mi prendesse e mi fucilasse», commenta Huston, che in effetti, anche senza cinepresa, ci regala una descrizione potente, agghiacciante, di taglio cinematografico, sugli esiti tremendi di un conflitto: «Napoli era come una puttana malmenata da un bruto: denti spezzati, occhi neri, naso rotto, puzza di sporcizia e di vomito. Mancava il sapone, e persino le gambe nude delle ragazze erano sporche. Le sigarette erano la merce di scambio comunemente impiegata, e per un pacchetto si poteva avere qualsiasi cosa. Di notte, durante l’oscuramento, dalle case sbucavano a frotte i topi e se ne stavano lì, a guardarti con gli occhi rossi, senza muoversi… Gli uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato, disposto a fare di tutto per sopravvivere. L’anima della gente era stata stuprata, era veramente una città senza Dio».

In Chinatown (1974), omaggio ad atmosfere alla Raymond Chandler, il nostro è solo attore: interpreta la parte di un orrido padre padrone, e viene diretto da Roman Polanski. Nel cast, anche Jack Nicholson, suo “genero” per molti anni, visto il lungo e tormentato legame con Anjelica, sua figlia. Huston commenta il film da regista: «Io ho sempre amato procedere, per quanto possibile, secondo l’ordine previsto dalla sceneggiatura, perché questo permette maggiore libertà nei confronti del soggetto», scrive. «Se non ci si è legati le mani girando all’inizio scene che stanno verso la fine del film, si è liberi di introdurre le idee che si presentano man mano che si procede. Per esempio, in Chinatown, la scena in cui tagliano il naso a Jack Nicholson non era nella sceneggiatura originale. Se prima di girare questa scena avessero girato le scene successive, avrebbero dovuto rifarle mostrando i punti di sutura al naso». Il ragionamento non fa una grinza. A proposito, una curiosità: fu lo stesso Polanski a interpretare il gangster che affetta il naso a Nicholson.

Giganti. Huston con Orson Welles

Ci pensa l’ottimo Pezzotta con la sua postfazione a ricordarci l’ecletticità di Huston, aspirante Hemingway per indole, ma anche fratello di Orson Welles nei guizzi anarchici e nella volontà di difendere le sue creature sottovalutate e più difficili, come Riflessi in un occhio d’oro (Reflections in a Golden Eye, 1967) con Marlon Brando nel ruolo di un militare omosessuale e Liz Taylor in quello di sua moglie, tratto dal romanzo della scrittrice Carson McCullers, all’epoca delle riprese già malatissima, dopo un ictus e un tumore. Huston, che si occupò anche di un perigliosissimo viaggio della scrittrice in Irlanda, la tratteggia così: «La ricordo come un cosina fragile con grandi occhi splendenti, e un tremito nella mano mentre la metteva nella mia. Non era la paralisi, ma piuttosto un fremito di timidezza animale. Non c’era nulla di timido o di fragile nella maniera in cui Carson McCullers affrontava la vita. E come le sue pene si moltiplicavano, lei diventava soltanto più forte».

La Dynasty, Anjelica alla destra del padre

Peccato che l’autobiografia si fermi prima di altri film e soprattutto prima di Gente di Dublino (The Dead, 1987) tratto da una delle novelle della raccolta Dubliners, di James Joyce. Huston lo girò mentre stava morendo: parlava con un filo di voce, si muoveva a fatica su una sedia a rotelle. Con le ultime forze, ci regalò questo capolavoro, dove la malinconia e il ricordo cadono sugli umani come fiocchi di neve, delicati, ma implacabili.

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