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Il referendum sul divorzio in un’Italia tanto diversa da oggi

Una bottiglia di champagne che sparava un tappo a forma di Amintore Fanfani. La vignetta di Forattini, apparsa in prima pagina sul quotidiano Paese Sera, fu la migliore e più diretta manifestazione di esultanza per la vittoria del NO.

Era il 14 maggio di cinquant’anni fa e i risultati elettorali bocciavano con il 59,26 % contro il 40,74 il referendum abrogativo sul divorzio (tenuto il 12 e il 13 maggio 1974), voluto dalla Democrazia cristiana e dal neofascista Movimento sociale.
Quella data non segnò soltanto la vittoria referendaria, ma anche quella del Paese laico e progressista contro una democrazia zoppicante, “clerico fascista”, che aveva governato sino a quei giorni, senza attuare la Costituzione del 1948, con una Corte costituzionale nata sette anni dopo, e presieduta sino al ’61 da Gaetano Azzariti, ex presidente del fascista tribunale della razza. Dopo di lui qualcosa cambiò in meglio nella Consulta, ma dovranno passare tanti anni per arrivare a quel 14 maggio dall’esito sorprendente per rendersi conto della grande svolta.

La società civile aveva preso maggior coscienza della propria influenza sul futuro del Paese. Fu esemplare la partecipazione di decine di migliaia di milanesi ai funerali per le vittime dell’attentato di piazza Fontana del ‘69. Avevano respinto le versioni della “bomba messa dall’anarchico Valpreda” e del “suicidio” di Giuseppe Pinelli proclamate dal questore Marcello Guida ed ex commissario fascista a Ventotene quando l’isola era una colonia di confinati politici. Tra i prigionieri c’era anche Sandro Pertini, il quale, eletto presidente della Camera nel ’69, durante una visita ufficiale a Milano non volle incontrare Guida che con altre autorità era andato ad accoglierlo alla stazione. “Non scendo dal treno finché quello lì non se ne va”, disse.

La battaglia per il divorzio fu l’espressione più concreta del contesto storico e sociale degli Anni Sessanta, dell’Italia del boom economico, del protagonismo dei movimenti collettivi e giovanili di protesta, che contribuì a cambiare la politica e la mentalità della gente.

Il mondo politico e la società italiana furono in quel periodo scossi profondamente dalla protesta dei movimenti collettivi che – nella scuola, nelle università e nelle piazze – si opponevano all’ordine esistente, all’autorità, a una visione gerarchica e verticistica delle istituzioni. Era il “maggio strisciante” o il “lungo sessantotto” con le proteste degli studenti che si affiancavano a quelle degli operai. Nel 1970 il Parlamento aveva approvato lo Statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio, che la Dc tenterà invano di abolire col referendum.

Nel ’75 la mobilitazione della società civile, e soprattutto il movimento delle donne, porteranno alla riforma del Diritto di famiglia, fermo ancora alle leggi fasciste. Con la nuova legge sull’ “eguaglianza tra i coniugi”, il marito non era più il “padrone” della famiglia, la sua potestà veniva condivisa alla pari con la moglie. Era condiviso anche il regime patrimoniale; la maggiore età e il diritto di voto scendevano dai 21 ai 18 anni; spariva il “delitto d’onore” che condannava a soli 4 anni di reclusione il marito che uccideva la moglie “peccatrice” (vedi il film Divorzio all’italiana); cancellata anche la condanna penale per adulterio, che colpiva soltanto la donna, non il coniuge.

La risposta degli ambienti reazionari contro il progresso sociale – e l’avanzata elettorale del Pci – arrivò subito con l’attentato nella piazza della Loggia di Brescia avvenuto il 28 maggio del ‘74 durante una manifestazione antifascista. Ci furono 8 morti e più di 100 feriti.

referendum divorzio vittorini forattini

Il lungo iter giudiziario per quella strage non si è ancora fermato: dopo la condanna definitiva in Cassazione (2017) dei neofascisti Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, risultato collaboratore del Sid – Servizio informazioni della Difesa – nell’aprile dell’anno scorso è stato rinviato a giudizio Marco Toffaloni (67 anni), oggi residente in Svizzera. Del processo si occuperà il Tribunale dei minori perché a quei tempi era minorenne. Non è uno scherzo.

Dopo piazza della Loggia seguiranno tanti altri ben noti e tragici attentati. Lo spostarsi a sinistra dell’Italia dava un grande fastidio a certi suoi alleati che per bloccarlo, facevano riferimento ai poteri occulti delle istituzioni e alla manovalanza neofascista.

Quando scoppiò la bomba a Brescia, ricordo che a Milano pioveva ed ero a casa.  Da alcuni giorni ero molto triste perché il settimanale Tempo, dove avevo lavorato e appreso il mestiere di giornalista, aveva chiuso i battenti a fine aprile. La causa fu il fallimento dell’editore Palazzi.

Quel giorno stavamo preparando il numero che sarebbe uscito con un ampio reportage di Guido Vergani sulla Rivoluzione dei garofani in Portogallo. Poco prima io avevo “passato” e titolato Scritti corsari, la rubrica di Pier Paolo Pasolini che poco dopo occupò la prima pagina del Corriere della Sera con lo stesso titolo. Gli avevo telefonato per avere un chiarimento su una frase che lui corresse ringraziandomi.

Andò tutto al macero insieme alla storia di quel bel periodico nato nel 1938 in casa Mondadori, ideato e diretto da Alberto, uno dei figli dell’editore Arnoldo.

Tempo, ispirandosi al settimanale americano Life, fu il primo rotocalco italiano a colori. La redazione era formata dai migliori giornalisti del periodo che col fascismo non avevano alcun legame. La grafica era di Bruno Munari; il capo redattore era Indro Montanelli che Mussolini fece cacciare dal Corriere della Sera, dopo che in un suo reportage sulla guerra civile spagnola, aveva scritto che le truppe fasciste mandate in sostegno dei franchisti “avevano subito una grossa batosta nella battaglia di Guadalajara” contro i repubblicani.

Tra i redattori, Alberto Lattuada, Salvatore Quasimodo, Cesare Zavattini, Lamberti Sorrentino, Luigi Comencini, Arturo Tofanelli, che diventerà direttore nel dopo guerra. Insomma era un “covo” di antifascisti mascherati che nell’Italia repubblicana percorreranno le vie del successo.

Nel ’40 Tempo già vendeva 200.000 copie che con l’entrata in guerra salirono sino a 400.000. Il giornale veniva diffuso all’estero tradotto nelle lingue delle nazioni occupate dai nazisti. Inoltre aveva un accordo di collaborazione col periodico tedesco Signal.

Nel ’43 interruppe le pubblicazioni e a fine guerra la Mondadori se ne liberò subito perché troppo compromesso col passato. Lo acquistò a un prezzo stracciato Aldo Palazzi, ex amministratore del Corriere della Sera, che la famiglia Crespi scelse come capro espiatorio per i propri legami col regime fascista.  Con Palazzi il settimanale risorse arrivando a vendere più di 400.000 copie. Io vi entrai quando ormai il declino era già iniziato e i giornalisti di un tempo erano passati nell’Olimpo dei famosi.

Dopo la chiusura del settimanale, il Corriere assunse otto redattori di Tempo, i più anziani. Il nuovo direttore, Piero Ottone, ne aveva bisogno per colmare i vuoti lasciati da Montanelli e altri colleghi “storici” che fondarono Il Giornale.

Io rimasi in lista d’attesa per dieci mesi e confesso che fu una attesa piacevole che mi offrì nuove esperienze e scarse preoccupazioni. Conobbi la strada accidentata delle collaborazioni, le attese per i colloqui con i direttori, le delusioni, i piccoli editori che davano lavoro ma che non pagavano.

Ricordo bene invece la serietà dell’Automobile, il settimanale dell’ACI, che mi affidò una rubrica fissa, pagandomi puntualmente. Mi fu utile la passione per i “motori” che conservavo sin da bambino. Poi accettai anche l’offerta di dirigere Pubblicità Domani un periodico del settore. L’editore mi dette “carta bianca” e con la collaborazione di giovanissimi redattori, cambiai completamente la grafica e i contenuti.

Con l’uscita del nuovo numero temevo il licenziamento in tronco e invece il mio esperimento ebbe successo. In quei pochi mesi che rimasi in quella testata, mi divertii moltissimo: oltre a inventarmi il mestiere di direttore legai molto con i miei collaboratori ai quali riuscii a trasmettere quel poco di esperienza guadagnata negli anni precedenti.

Mi dispiacque lasciare quel lavoro, ma finalmente arrivò la chiamata del Corriere, ottenuta grazie alla segnalazione di uno degli ex colleghi del Tempo che già lavorava in via Solferino. Non potevo rinunciare.

Con Ottone il giornale si era liberato della coltre paludata e conservatrice della precedente direzione di Spadolini per affrontare i veri problemi del Paese. Lo fece a tal punto che Montanelli dal suo Giornale fece una campagna contro il Corriere definendolo comunista. Due anni dopo Ottone, che aveva incrementato le vendite di 100 mila copie al giorno, si dimise. Era al corrente che la loggia P2 si era impadronita del quotidiano.

Pensando all’Italia di quei tempi, vengo colto dalla nostalgia intesa non come un sentimento personale che appartiene alla gioventù, ma per un Paese diverso da quello di oggi. Seppur tra attentati, tentativi di golpe, cariche sanguinose della polizia, terrorismo e tanto altro, allora si aveva la sensazione che la Nazione sarebbe uscita dalla morsa del vecchio potere con la partecipazione di tutti i cittadini appartenenti ad ogni classe sociale.

Invece oggi ho l’impressione del fallimento di quegli ideali, senza riuscire ad analizzarne bene le cause.  L’opinione pubblica è disorientata, ha perso la memoria, non si sente più protagonista della vita del Paese, subisce in silenzio il mal governo.

Forse sono troppo pessimista. Ho appena finito di leggere L’Italia e le sue storie, un saggio dello storico inglese John Foot sulla storia italiana raccontata dal dopoguerra ad oggi attraverso episodi più noti. Mi hanno colpito tra l’altro queste parole tratte dalla prefazione: «L’Italia conta e non solo per gli italiani. Tutt’altro che marginale in Europa, la penisola è sempre stata al centro del cambiamento e dell’innovazione politica. Nel bene e nel male, questo è un Paese dal quale abbiamo molto da imparare».

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