Ci sono dei libri che, parlandone da vivi cioè mentre fanno il loro percorso di “prodotto editoriale”, incontrano sorti avventurose passando di mano da un editore a un altro, ripubblicati, ritradotti, o riveduti dall’autore stesso che si toglie il gusto di aggiungere o tagliare. In tale senso, ha certamente un “vissuto” Il giudizio universale (Edizioni Clichy), romanzo del francese Luc Lang che ho appena finito di leggere sedotta dalla feroce leggerezza della sua scrittura (e anche un po’ tramortita dalla struttura della narrazione che scorribanda tra luoghi tempi generi diversi, tra realtà e invenzione, cronaca e Grand-Guignol su echi di musica coltissima e citazioni shakespeariane).
Pubblicato per la prima volta in Francia col titolo Mille six cents ventres, il romanzo vince nel 1998 il Prix Goncourt des Lycéens, premio annuale oggi molto ambito nel panorama letterario francese: viene assegnato da una giuria di 2.000 studenti scelti fra tutte le scuole superiori francesi, chiamati a votare l’opera preferita tra una lista di libri proposti dalla stessa accademia Goncourt. I volumi vengono distribuiti nelle scuole senza distinzione di ordine includendo anche quegli istituti tecnici e professionali che sono “le plus éloignés d’une culture littéraire”, compresi gli istituti penitenziari, parecchio lontani, di solito, dalla cultura letteraria.
Domanda: esiste qualcosa del genere in Italia? Non lo so. In ogni caso, dopo la prima edizione italiana (Passigli, anno 2000, titolo tradotto alla lettera Milleseicento ventri), arriva, nell’ottobre 2023, questa versione rivisitata dallo stesso Lang per i tipi di Edizioni Clichy di Firenze nella traduzione di Maurizio Ferrara: fa parte della collana di narrativa contemporanea Gare du Nord, dedicata, come da presentazione della stessa casa editrice, “alla scrittura di stampo letterario […]: storie, esseri umani […] tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile, senza timore […] di raccontare abissi, sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries”. Ovvero: tutto ciò che Luc Lang, scrittore parigino oggi sessantasettenne, profonde qui con tocco sapientemente lieve.
In quest’ultimo passaggio editoriale “i milleseicento ventri” – tante sono le pance detenute nel carcere del sobborgo di Manchester dove il protagonista del romanzo, capocuoco, svolge molto pericolosamente (per chi mangia) la sua mansione –, sono diventati Il giudizio universale, titolo del nuovo volume. Che catapulta il lettore in medias res fin dalle prime righe: “Nel sentire le sue mani che mi massaggiavano la nuca e che mi spettinavano, nel vedere la sua gola bianca che si offriva palpitante […] ritrovavo fra le cosce nude di Louise un’ultima giovinezza. Dio solo sa quanto detesto che mi scompiglino le ondulazioni dei capelli pazientemente rifatte ogni mattina…”: è Henry Blain che parla, sessantenne io narrante del romanzo – personaggio d’invenzione –, mentre sul tetto del carcere di Strangeways che sta di fronte a casa sua nella periferia di Manchester infuria la rivolta dei detenuti (1600 invece dei 970 che potevano essere rinchiusi lì). La rivolta è quella vera, la storica Strangeways prison riot che dal primo al venticinque aprile dell’anno 2000 fu il fenomeno mediatico più seguito dai media non solo del Regno Unito: provocò rivolte anche in altri centri di detenzione e diverse inchieste sul governo della Lady di Ferro Margaret Thatcher.
Inserire in questo scenario così drammaticamente reale il personaggio fittizio di Henry Blain, orribile tipo di comune “brava persona”, narcisista patologico, opportunista calcolatore (fa pagare a quelli della tv l’accesso alla sua terrazza dalla quale possono riprendere meglio i rivoltosi), avvelenatore di chi gli sta antipatico, stupratore e femminicida (due sue mogli sono misteriosamente scomparse e vien voglia di consigliare a questa Louise dalla bianca gola palpitante di stare attenta a non scompigliargli troppo i capelli, al bravo Henry Blain, se non vuole finire anche lei sepolta sotto le curatissime piante del suo giardino: massì, spoileriamo, tanto si sa che la letteratura non è quel che si dice, ma “come” lo si dice, e Luc Lang qui lo sa dire in modo impareggiabile), permette all’autore di trattare temi importanti. Quali il sovrappopolamento e le condizioni disumane della vita in carcere (problemi globali tuttora gravemente irrisolti); la malattia mentale; il gap tra giustizia e pena.
Resterebbe, al di là della legge umana, la giustizia divina. Ma, alla fine del libro, resta anche il dubbio che l’orribile brava personcina di Henry Blain, sempre scampato alla giustizia umana, riuscirà forse a fottere anche il giudizio universale.
Nella foto in alto, riot a Strangeways
- Jonne Bertola, giornalista milanese. Autrice del romanzo Swinging Giulia, di Piacenza (Morellini) e di Di chi è questo corpo (Luoghinteriori)