Il sorpasso di Dino Risi è l’Italia, anche a rivederlo per la …esima volta. Anche oggi, anno 2024, dopo 62 anni, ci si chiede come sia stato possibile azzeccare perfezione, rotondità, efficacia immutata nel tempo.
Del resto, il regista-medico milanese, aspirante psichiatra, era un genio nel fotografare i tipi contemporanei, e la sceneggiatura l’hanno scritta Ruggero Maccari ed Ettore Scola, da un’idea, sembra, di Rodolfo Sonego, che infatti meditò di fare causa a Risi, ma poi lasciò perdere. Parliamo del gotha del nostro cinema anni Sessanta.
Il segreto del film è anche l’immortale coppia di protagonisti, il timido Roberto (Jean-Louis Trintignant) e quel gran cialtrone di Bruno (Vittorio Gassman), che rappresentano le due facce del nostro paese. Li guardi, osservi la loro parabola fino alla fine e invochi: sia mai che queste due tipologie umane un giorno si amalgamassero, stemperassero nel mix and match gli aspetti deleteri, autodistruttivi, iperbolici e saremmo la nazione migliore del mondo. Purtroppo, non si amalgamano mai, non si fondono al meglio per osmosi, non si scambiano i potenziali talenti, questo è il problema. Il problema è che a modo loro, hanno tutti e due ragione, ma non serve.
Bruno egoista, superficiale, amorale, intuitivo resta fino in fondo se stesso. Roberto ingenuo, sognatore, introverso, nostalgico, non cambia.
Roberto è l’Italia a vocazione umanista, liceo classico e poi Giurisprudenza, nella peggiore delle ipotesi solo per arrivare a guidare la 1100 e avere una moglie obbediente; nella migliore, per restare a vita un’acchiappa nuvole che scrive poesie e sogna l’Arte. Versione più rarefatta del Nicola Palumbo di C’eravamo tanto amati? Un’Italia immobile, senza guizzi, in fondo tenacemente conservatrice, che si merita la battuta di Bruno: «Ma al giorno d’oggi semmai dovresti studiare diritto spaziale!». Scriveva sull’Avanti Ernesto Cesare Longobardi, tra i futuri fondatori del Partito Comunista, ed era il 1906: “L’Italia ha più bisogno di uomini che producono che di uomini che parlino e scrivano, più di commercianti e di tecnici che di commentatori di classici”. Salvo poi lamentare che il latino non sarebbe più stato studiato, ed era un guaio.
Bruno è il trafficone, il senso pratico che cerca eternamente di aggirare le regole, la butta in caciara, spreca il suo intuito, la brillantezza. Non sa che fare, in fondo non ha alcuna fiducia in se stesso, senza imbrogliare il prossimo, non metterebbe insieme il pranzo con la cena. Corre sulle cose come in macchina, veloce, superficiale, e anche quando c’azzecca, resta a metà («A me Modugno mi piace sempre, questo Uomo in frac me fa impazzì, perché pare ’na cosa de niente e invece c’è tutto: la solitudine, l’incomunicabilità, poi quell’altra cosa, quella che va di moda oggi…»).
Non sono tutti e due pezzi di noi, di noi italiani, ancora oggi?
La storia è nota: siamo negli anni Sessanta, anni di un boom economico che si porta addosso l’odore della guerra («Mi hanno rubato gli anni migliori prima la guerra e poi il matrimonio», si lamenta Bruno) e i due s’incontrano per caso nel giorno arci-italiano per eccellenza, a Ferragosto, in una Roma canicolare e deserta. Bruno sfaccendato, solo, bello come il sole – Gassman è all’ennesima potenza, 40 anni di energia, sensualità animale, sorriso accattivante – Roberto studentello pallido, rimasto in città chino sui libri di Giurisprudenza, sognatore, sguardo malinconico.
Insieme, percorrono in macchina la litoranea fino a Castiglioncello, allora meta borghese – ci andavano in vacanza Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, lo stesso Gassman – in uno scontro-incontro di caratteri opposti. Ogni minuto Roberto potrebbe mollare al suo destino Bruno e la sua scattante Lancia Aurelia (“Un’auto che sa di vernice di donne di velocità”, canterebbe Paolo Conte), in ogni istante la voce off ci rivela i suoi pensieri segreti, sussurra lo sdegno nei confronti del compagno di viaggio, monstrum nell’arte di arrangiarsi, prendere in giro il prossimo, approcciarsi in maniera rapace alle donne. Eppure Roberto non molla Bruno, ne è attratto irresistibilmente. Lui, silenzioso, innamorato di una compagna d’università che spia dalla finestra e alla quale non ha mai osato rivolgere la parola, è attratto dall’affabulatore, dal piacione compulsivo.
Roberto che mitizza le vacanze d’infanzia in una cascina del grossetano, salvo non averci mai capito nulla, e capitarci per caso con Bruno, cui invece basta uno sguardo per fotografare tutto: la zia se l’intendeva col fattore, e il cugino non è figlio dello zio. Il tuttofare Occhiofino è omosessuale, come da soprannome greve, letto all’incontrario. All’incontrario è Bruno rispetto a Roberto, in tutto e per tutto.
Quando sarà il turno di Bruno, quando sarà lui a presentare la sua famiglia al nuovo amico, un’ex moglie stanca e chic che lo conosce come le sue tasche e proprio per questo l’ha mollato e una giovane figlia (Catherine Spaak) di cui si è sempre disinteressato, fidanzata con un anziano “cumenda”, ecco che Roberto lo incontrerà davvero. «Ognuno di noi ha un ricordo sbagliato dell’infanzia. Sai perché diciamo sempre che era l’età più bella? Perché in realtà non ce lo ricordiamo più com’era», arriva a comprendere Roberto.
Risi è un genio: nelle battute taglienti; nel mostrarci questa Italia indecisa tra la modernità dei bikini e di relazioni sessuali più disinvolte, e un frusto moralismo di facciata, tragicomico («Ma come, la bambina non è ancora tornata e tu glielo permetti?», rimprovera l’ex moglie Bruno, quando ricompare d’improvviso dopo anni di latitanza, nella villa delle vacanze, in piena notte). È un genio nel camminare da funambolo provetto su una sceneggiatura scoppiettante, ma insieme obbedire da vero regista al “don’t talk, show”: capiamo che Bruno seduce Lidia, la zia più giovane di Roberto, perché prima la vediamo sciogliersi i lunghi capelli su scherzosa istigazione di lui. Poi, alla fine del loro soggiorno nella cascina di campagna, con Bruno che scalpita per andarsene, dopo saluti frettolosi all’intero gruppo famigliare e con la macchina sportiva che sgomma e riparte, dalla finestra della camera da letto, zia Lidia, si raccoglie i capelli. Tutto qui, ecco il Maestro.
Risi e Gassman nella vita si sono voluti molto bene. Nell’autobiografia I miei mostri (Mondadori) Dino racconta l’amico in visita a casa sua, un appartamento con affaccio sul Bioparco di Roma. Guardano la gabbia dell’aquila, immobile su un albero di cemento, incapace di fare altro che non sia mangiare il pezzo di carne che le offrono i guardiani, apatica. «Quella sono io. Anch’io a casa sto fermo delle ore, a fissare il muro», commenta Vittorio, malato di depressione. Invano Dino lo esorta a fingere che ogni settimana sia l’ultima, una vacanza da passare sulla terra. «Non è così semplice», gli risponde triste Gassman, forse con l’espressione dell’ultima inquadratura del Sorpasso.