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Allonsanfàn
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Io? Ritorna dalla guerra e da Weimar l’enigma di Peter Flamm

Capita di rado di leggere romanzi così immeritatamente sconosciuti come Io? (Ich?) di Peter Flamm, scritto appresso a una tragedia, se non giunto direttamente dall’inferno, dai campi del macello della Prima guerra mondiale, e proseguito tra la folla di Berlino nello stupefatto incubo della Repubblica di Weimar. Lo ha sottratto all’oblio Adelphi che nella traduzione di Margherita Belardetti riprende l’edizione tedesca del 2023 – il romanzo uscì per la prima volta da S. Fisher nel 1926.

È sorprendente Io? per contenuto e forma che gli donano tra l’altro alcune caratteristiche da romanzo del mistero: c’è un delitto sebbene presunto e una sorta di tribunale schierato nel finale. Ma non cerchiamo il facile appiglio dove non c’è. Il testo di Io? è legata a doppio filo al delirio del personaggio che racconta e a una precisa scelta stilistica dello scrittore. La ricostruzione – nel senso proprio della ricostruzione di un sé – è volutamente enigmatica o a tratti del tutto inattendibile.

Io? è il récit di un impostore, che nasce tra gli infimi morti di Verdun: in apparenza parla un poveraccio, Wilhelm Bettuch, un miserabile pezzo di carne da trincea – cioè un uomo inesistente – che si appropria (forse) dei documenti e della vita rispettabile di un alto borghese, Hans Stern, un medico morto, trucidato, a un passo da lui. Poi, ne prenderà o cercherà di prenderne la vita. Ma il racconto di Bettuch o Stern che sia, frammentato e sconvolto, sospeso tra fitte virgole, si risolve in una storia ambigua che deve le sue fiammate emotive a una continua deformazione espressionista – Io? richiama un quadro di battaglia di Grosz o una tranche di vita borghese di Max Beckmann o una scena drammatica di M il mostro di Fritz Lang. Tutte le figure che compongono la scena paiono indefinite e pericolosamente in bilico, storpie eppure doppie, compreso il cane Nerone, (forse) incarnazione, oltre che di un Argo rabbioso, di un magistrato inflessibile.

Io? tocca a piè di pagina, nelle possibili note, i grandi tedeschi di Weimar – a partire da Siegfried Kracauer, con più di un aggancio al saggio Il romanzo poliziesco: un trattato filosofico, e da Walter Benjamin, anche se le stupefacenti scene di massa create da Flamm più che il passo eccentrico di un flâneur ingoiano un individuo allo sbando per l’angoscia; e poi (forse) Flamm produce un delirio che ha addirittura un imprinting marxiano, di classe, mescolando visionariamente nel ricco e nel povero, che sono stati confusi insieme dalla maledizione della guerra, il proletariato e la borghesia – vedi al proposito la postfazione di Manfred Posani Löwenstein.

Tra parentesi: siamo a un passo, nello spazio tempo del primo conflitto mondiale, dal Céline ritrovato di Guerra (Adelphi 2023) che alla fin fine abbiamo trattato come la solita irresistibile fanfaronata del francese, benché partisse dai corpi smembrati di una carneficina. Ne segue oggi una domanda: ma possiamo leggere Guerra o Io? come prodotti di consumo e persino di svago, dimenticando l’orrore della guerra tornata vicino a noi, che ha risemantizzato in Europa parole fino a poco fa vuotate di senso o ignorabili come minaccia nucleare o genocidio?

Da ultimo, chi è lo scrittore del dimenticato Io?: Peter Flamm, vero nome Erich Mosse, nato a Berlino nel 1891, iniziò a pubblicare racconti mentre studiava medicina. Nel 1926 il suo romanzo d’esordio Io? fece scalpore presso S. Fischer, dal cui sito traiamo notizie e rubiamo la foto in apertura. Negli anni successivi, oltre a dedicarsi alla pratica medica, scrisse altri tre romanzi; ebreo, dovette emigrare dalla Germania a Parigi con la moglie Marianne nel 1933 e a New York nel 1934. Lì lavorò come psichiatra e curò tra gli altri William Faulkner. Che la mancanza di una chiave certa o qualsiasi per la comprensione di Io? inerisca alle frustrazioni della sua professione di medico dell’anima? Tanto per dire: in Io? siamo lontanissimi dal capriccio viennese di Doppio sogno di Arthur Schnitzler, uscito anch’esso in lingua tedesca nel 1926 e così psicoanaliticamente aggraziato. Chissà. Mosse morì a New York nel 1963, molto dopo ai suoi stralunati personaggi…

…sempre si salgono e si scendono delle scale e poi ci si ritrova per strada, è già successo una volta, da qualche parte c’è una persona alla finestra e chiama, chiama ininterrottamente, e dalla strada arriva qualcuno, arrivo io e salgo le scale, sono sempre scale diverse, alcune larghe, luminose e allegre, altre strette, anguste e buie, conducono alla miseria e alla morte”. “Chissà da quanto tempo siamo morti” (Georg Trakl, Entlang).

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