UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Sándor Márai. Bébi, il primo amore, sull’orlo del delirio

La forma del diario fornisce l’appeal dell’indiscrezione per chi legge e, nel caso sia proposta in letteratura, offre una promessa, naturalmente inattendibile, di sincerità. Questo anche se lo scrivente, come qui, alla prima riga mostra di non sapere quasi niente di se stesso, del suo vero sé, e poiché nel Novecento si patisce molto la dissoluzione del soggetto cristiano-borghese…

Comunque. Il diario concede al lettore-voyeur un’altra attrattiva: gli permette, mentre legge e vede svilupparsi un pensiero o un’azione, di scrutare il povero diarista dall’alto, come se fosse un caso umano (o addirittura clinico), il che gli concede di assumere una certa aria di superiorità.

Con queste carte in mano, gioca abilmente il narratore Sándor Márai in Bébi, il primo amore (tradotto da Laura Sgarioto per Adelphi), celandosi dietro la penna esitante di un uomo medio anzi minuscolo, un professore di liceo senescente, tal Gáspár detto dagli studenti e dal volgo il Tricheco, che insegna latino – oh quanto Orazio, e non per caso!

Mite in apparenza e nevrotico furioso, celibe per vocazione e quasi impermeabile al mondo esterno, Gáspár il Tricheco si fa seguire nelle tribolazioni di un anno per lui speciale, andandogli stretta d’improvviso la cittadina di Z. nella decaduta Ungheria degli anni dieci del secolo breve, dove lui è animale stanziale e abitudinario da quasi un trentennio.

È ovvio che quando il professore, oppresso da un malessere oscuro, un senso di vuoto, penserà a un viaggio, il lettore si prepara a un’avventura dai toni persino grotteschi, dato il tipo inetto del personaggio. Viaggio? In fondo, poi, Gáspár il Tricheco fa la scelta minimalista di recarsi in un luogo termale.

Il soggiorno alle pendici dei monti Tátra e una malattia, sotto specie di febbre da cavallo – e non di peste o colera -, lo cambieranno per sempre, cioè per il poco che gli resta da vivere, e nella seconda parte del diario (divisibile in due blocchi di 140 pagine) è prevista una tardiva e inquietante storia d’amore, innescata voyeuristicamente dal professore – e doppiamente voyeuristicamente per noi – nella classe mista dov’è tornato a insegnare…

Gáspár il Tricheco è chiaramente (deliberatamente) un alias del manniano Gustav con Aschenbach, un quasi parodistico fratello minore, di rango assai inferiore, molto impiegatizio (ricordarsi sempre di omaggiare Siegfried Kracauer), di assai inferiore elaborazione intellettuale e, almeno così sembrerebbe, di tendenza eterosessuale nella scelta dello psicagogo – anche se uno psicoanalista noterebbe che i più forti per quanto controversi rapporti nascono qui tra il professore e due maschi, molto diversi tra loro: un segretario, misterioso e miserabile collettore di segreti altrui, e uno studente povero ma fiero.

Di certo, nel proseguio del diario, il patetico tentativo di trasformazione giovanilista del vecchio – ha 54 anni che ai suoi tempi valevano più che ai nostri – lascia un senso di divertito déjà lu e insieme poche speranze di lieto fine, di trovar scampo dalla nevrosi o addirittura dal delirio del diarista…

Sándor Márai pubblica Bébi, il primo amore all’esordio, nel 1928, quando la sua vita da giornalista e scrittore gli ha fatto conoscere Berlino e Parigi, cui segue il ritorno spaesato in patria, e possiede già un mestiere solidissimo. Nasconde il suo animo tormentato dietro la capacità di incantare con sofisticati mezzi letterari e nel contempo di fornire un intrattenimento sicuro anche a chi legge distratto.

Pure senza il congegno narrativo pronto a scattare come una tagliola de Le braci, romanzo giocato sulla lunga attesa di un’essenziale rivelazione, anche Bébi, il primo amore si legge aspettando la luce oppure il buio dell’ultima parola. La seduttiva foto di copertina, Miss R. (1904, particolare), è di Alfred Stieglitz.

(Credit: Márai-szobor Újpest by Újpesti Meteor is licensed under CC BY-SA 4.0.)

I social: