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Allonsanfàn
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Parigi. We can be flâneur just for one day

Esco. Che anche questa camera d’albergo, al The Hoxton, una specie di boutique ostello, talmente raffinato nei dettagli con quelle Tolomeo al posto delle abat jour, la testiera in cuoio appesa dietro il matrimoniale con le cinture, il parquet a spina di pesce vissuto al punto giusto, il verde Tiffany alle pareti, lo specchio rotondo, il lavabo a consolle sui piedini di ferro battuto e quelle finestre a doppia anta con inglesina aperte chiuse su altre finestre tutte uguali sotto i tetti di ardesia sui quali piove, piove, piove… sarà pure una stanza perfetta ma senza amore, dalla quale in barba alle tiritere all’organetto di Paolo Conte è meglio lasciarsi scaraventare fuori, anche se piove, anche se piove… non prima di sgattaiolare da un corridoio, passando fuori sul terrazzino tra gli abbaini e poi dentro a un altro corridoio, una teoria di porte chiuse fino all’ascensore, e davanti ad alcune un cabaret coi resti di una cena consumata in camera, perfetto anche così con quel cibo smozzicato i bicchieri rovesciati le posate scombinate il vasetto in alluminio ancora pieno di french fries, di coppie sorprese dall’amore, rifugiate al riparo dalla pioggia, a celebrare l’amour, a Parigi. Esco.

Ieri sera ho preso per Pigalle, ieri sera non pioveva. Ma parimenti non c’era anima, ragazzi nella luce gialla e rossa di un’insegna, qualche fantasma in cerca del Louvre, spiritelli bizzosi, vecchi in cerca di roba vecchia, tutto molto parigino, dopo un pomeriggio sul bateau-mouche (ma elettrico non ebbro, un goccio di champagne) in una Parigi infernale per il traffico, ma senza scazzi, solo una moderata rassegnazione, e i poliziotti a fare i furbi con le sirene per passare la coda, certi barboni con costruzioni di cartoni, plastica, aste di varia provenienza alle fermate di autobus prese in possesso per usucapione, la mano sotto il cuore e il ghigno da Napoleone del manicomio, strutture più complesse del Pompidou, loro sdraiati come la Pompadour sui vestiti di stracci, in pendant con le facciate dei palazzi fin de siècle, e quell’altro prima allora? accovacciato sotto il ponte, mentre noi si passava con un taglierino di formaggi buoni e scarsi salumi all’ora dell’aperitivo, dove i più intraprendenti si portano la bottiglia di bollicine sugli argini e però anche i calici, che brillano ai raggi paglierini del sole al tramonto, lame di luce come spade incrociate non quei rossi aranciati sfumati in viola da algoritmo dell’iPhone sui Navigli causa fenomeni atmosferici, o soffi lenticolari di Eolo, sui talloni, in bilico, come una specie di anfibio con la forma dell’acqua e della pietra, più stupefatto lui di me che lo scruto con quasi reverente invidia come fosse un emulo natante del famoso barone calviniano, oltre molto oltre i personaggi borderline di Queneau in resistenza attiva sui barconi au bord della Senna.

A ogni modo. Niente di erotico per Pigalle come da narrazione, né segni rossi a segnalare anfratti, cantine, retrobottega con spogliarelli anche fosse più casti di certe protagoniste su Chaturbate che la tirano in lunga sfregandosi su certi macchinari del godimento succedaneo, ancora ora ma per poco, se la via all’estasi è non solo più breve ma anche per forza più soddisfacente tramite siliconato genitale sempre pronto e duraturo e ti evita anche altrettanto insoddisfacenti chiacchiere di cultura generale per premesse in mancanza di promesse, miagolando tenghiu in risposta a una cascata di token come nemmeno più a Las Vegas dai contribuenti volontari al crowdfunding pornografico con scopo benefattore, finiremo allora per assistere all’amore come si fa con ChatGpt mentre ci scrive i testi col nostro stile quando i nuovi mecenati col cervello in figa che non pagano le imposte elargiscono bontà loro gettoni alla gioventù mica in fuga dall’obbrobrio del lavoro alienante ma in ossequio al verbo dell’imprenditore fai da te, sfruttatori indefessi di se stessi, ignari sia più faticoso menarlo duro che menare facendo i duri. Una specie di meretrice in déshabillé, come neanche le signore delle pulizie a ore di un tempo, tutti maschi ormai, vista la penuria delle donne in cerca di soddisfazioni lavorative altrove, i capelli accrocchiati sulla nuca, con una gonna al ginocchio mica a ruota del Moulin Rouge (è appena venuta giù la pala del mulino ho letto, sarà un segno o una conferma? chiedere a Perplexity), una ring tee bianca più slabbrata delle sue piccole e grandi che non faranno più differenza, due sabot e la sigaretta accesa da boomer che non gradisce lo swap, forse pratica ancora la spagnola, con quei seni a livello ombelico, esercizio ormai in disuso e bisognoso di nota a piè di pagina, lei, penso, mentre già mi chiedo non sia solo suggestione da mancanza di letteratura, orrida realtà che tradisce anche le citate consunte narrazioni, unica presenza a rappresentanza del quartiere. E mentre vado oltre la soglia dalla quale è apparsa, appesa alla cicca come nella posa di Houellebecq, lo sguardo autofabbricatosi da provvidenti paraocchi ecco che mi giunge, alle spalle, in tutta la sua sconcia verità con accento autentico un “Cucù bonjour” al quale non so non tanto rispondere, ormai sono oltre, dovrei girarmi per replicare educato al saluto, ma nemmeno sorridere per cotanta autentica sorpresa.

Ho proseguito salendo un pezzo verso Montmartre dove, ricordo, gli studenti dell’accademia ti schizzavano un ritratto più somigliante dell’originale, camminandoti a fianco, nel tempo che ci mettevi a dire No merci, poi ho chiamato, scarico, un Uber con l’app, seguito il disegno della macchinina sulla mappa che mi veniva incontro al posto dove l’avevo chiamata, fino a quando non ho riconosciuto la targa e sono salito.

Stasera prendo a destra e vado giù verso il Marais. Ancora le luci gialle e rosse ma doppiate a specchio causa rimbaudiane pozze in un turbinio esagerato di tavolini, seggioline tappezzate a righe, o impagliate con ricami eccessivi, come il polpo di ieri sera al Loulou, ristochic con sedute dans l’herbe nel cortile piramidato dove se entri la sera suonano violini zigani, e non è sufficiente il purè ma, causa morettiana insicurezza, cascano nel piatto superflui pomodorini e pure una zucchina chissà perché, in un caos per nulla calmo, anzi strabordante come il tiramisù che susciterebbe pastiche all’Arbasino che – qui a Parigi, dov’ero? – un’era preistorica fa fuori da una mostra di Barney zoomai solo per poi accorgermi che la foto non c’era (era così a quel tempo e le ultime della pellicola non restavano impresse, in una nemesi impressionista colma di accidenti alla meccanica e rimpianti quando in vena scarsa di malinconie sui maestri soliti stronzi in vecchiaia e poi vittime di definitiva cancel culture appena tumulati in ossequio al lettore che non deve perdersi ma portare l’argent, andai a cercarla tra le diapositive di quel duemila e giù di lì)… Si diceva, signora mia che avrebbe adesso lo schwa (o la schwa?)? Ragazzi seduti in posa con gambetta accavallata, tutti subito nouveau philosophes con discussioni apparenti su massimi sistemi e poi magari è la blockchain e il poker online per svoltare precarietà che rimpiangeranno poi svoltata l’età dell’innocenza dichiarata… ma anche ristoranti libanesi aperti ma deserti, sotto le tende a righe bianche e rosse meno gente che alla stessa ora a Vicenza, file di sedili vuoti come godardiane prime andate deserte per mancanza di Nouvelle Vague, vibe giuste invece per stramaledetti poeti in cerca di facili rime sbrodoleriane. Dove si infratteranno i ragazzini con appuntamento notturno ai murazzi se il lungo Senna è rischiarato a giorno dal nucleare? Se Dalì invita al silenzio, giro in tondo senza sentore non dico di nuit sauvages ma almeno di una chitarra che non suoni flamenco su risa che diventano via via più distanti. Le scale mobili del Beaubourg da sotto sono uguali al cordon rouge sull’etichetta del Mumm. Dentro le pubblicità degli occhiali da sole si intravedono altri smemorati solitari fantasmi che non tollerano di tornare a casa, e un Beckett insolito – le lunettes sollevate sulla fronte piena di autostrade per nowhere – se la ride ma di gusto proprio dentro alla vetrina di un bouquiniste che ce l’ha fatta o forse ha l’età dei reumatismi, piace pensare a tutto quello humour irlandese da eccesso di birra e whisky, se fosse nato oggi dormirebbe in un cartone qui al Marais, dove rinculo tornando indietro e topolini ratatouille se la spassano ma davvero loro fuori e dentro dai tombini, unica festa mobile mentre ricomincia a piovere ma con eleganza.

Rientrando verso la mia stanza mi porto via le french fries ancora lì nello stesso cabaret fermato nell’attimo fotografico, definitivo carpe diem cartierbressoniano non su movimenti vitali per creatrici evoluzioni ma per incartate rimasticature di intuizioni digerite male. E il sapore è quello del paradiso, quando si ha fame, e il miracolo è quello di chiudersi dietro la porta e gli occhi. Con quella faccia, un po’ così.

A Milano ai poeti, non piazze, intitolano i ponti.

Tutte le fotografie sono di Gabriele Nava

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