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Netflix. Il caso Yara diventa lo show di Bossetti

Diceva Francis Ford Coppola che il compito del montaggio è “…costruire un ritmo interessante e coerente di emozioni e di pensieri, sulla piccola e grande scala, per consentire al pubblico di lasciarsi andare, di darsi al film”.

Ed ecco che, grazie al montaggio, lo showrunner di un docu crime a episodi – sia che racconti lo strapotere di un padre padrone come Vincenzo Muccioli sia che indaghi un processo chiacchierato ma conclusosi con una netta condanna – propone di “darci al film”, cioè di seguire le sue seducenti tesi che fingono l’impassibilità dell’informazione mentre lui fa molto spettacolo.

Non è giornalismo, anche se spacciato con artificio per tale in una sofisticata confusione di media. Già il fatto che Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio (Netflix) sia attribuito allo showrunner Gianluca Neri e a tre sceneggiatori e non a una redazione avvalora semanticamente la differenza e apparenta il prodotto al mondo dei film – showrunner e sceneggiatori preparano per di più una prodotto per Netflix da distribuire worldwide e quindi da “universalizzare” – anche se di un vero giornalista, uno qualsiasi ma noto, si ha bisogno per dare più (falsa) oggettiva verosimiglianza al tutto. In questo caso si esibisce, inquadrato nella pensosa oscurità di un salotto, Luca Telese, ma ogni delitto, di solito, da Caino ai vicini di Erba ha il suo giornalista astuto che ha letto meglio di tutti le carte processuali.

Comunque. Gianluca Neri, showrunner di Il caso Yara, ci ha consegnato, ci ha montato in primo piano fino alla nausea, gli occhi profondi che emergono dal buio (del carcere? dell’anima?) e le mani dalle dita lunghe e curate, un po’ pelose per significare contrasto, del “mostro” bergamasco Massimo Bossetti.

Gli ha dato la parola muovendolo in voice over su un campo quasi metafisico – un cortile vuoto in un universo carcerario dove il galeotto dà un calcio esistenzialmente inutile a una palla – e ponendolo, facendolo apparire, come dal nulla su una sedia importante come un trono. Usando queste pose, di cui ha disseminato la miniserie, lo showrunner ci ha dimostrato la solitudine e la regale innocenza di Massimo Bossetti – a proposito: chi lo avrà aiutato a scrivere le parole dell’intervista e chi gliele avrà tagliate, cioè “montate”? Uno sceneggiatore o l’avvocato difensore, quello con gli occhiali giganti?

Bossetti figura qui per scelta delle immagini e delle parole e per la loro intromissione nei rozzi filmati di cronaca o nelle svelte interviste strappate a parenti e curiosi, esperti e forze dell’ordine, il nobile e riflessivo prigioniero di un giallo che, per l’opinione pubblica e per gli inquirenti, aveva bisogno troppo presto di un colpevole qualsivoglia…

La serie Il caso Yara dovrebbe chiamarsi Il caso Massimo perché della piccola vittima e della famiglia dal terzo episodio in poi non si parla quasi più – del resto, la famiglia Gambirasio, interpellata, non ha voluto partecipare (e saggiamente). Quanto detto ora non significa affatto che Bossetti sia colpevole – lo è già per tre gradi di giustizia – ma soltanto che l’opera di Neri e le parole del suo villain, mimetizzate ed esaltate dal consueto corale blabla, appartengono in essenza al campo della fiction.

Nelle foto in alto, da Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio (Netflix), Massimo Bossetti

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