UN BLOG
IN FORMA DI MAGAZINE
E VICEVERSA

Allonsanfàn
{{post_author}}

Dostoevskij, il serial killer esistenzialista dei D’Innocenzo

A proposito di Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo. Ho pensato che, non molto tempo fa, è accaduto che nel mondo si contassero meno serial killer reali che serial killer di fantasia, i quali abbondavano e spadroneggiavano nei romanzi e nei film.

Questo perché il serial killer era diventato né più né meno che una figura retorica. Personaggio ideale per incarnare sulla carta o sulla celluloide le patologie dell’uomo contemporaneo elevate al massimo quoziente, il serial killer è il solitario per antonomasia in tempi alienati, incapace fino al disastro di avere una vita sociale ma inabile pure a condurre una rozza esistenza psichica che gli consenta di governare le più elementari pulsioni.

Così, crudele e indifendibile, ci è apparso in tante narrazioni e variazioni, così tante e proliferanti da registrare presto – e il dottor Hannibal Lecter è un noto precursore – una mutazione per così dire filosofica del criminale seriale: da puro psicotico a esistenzialista più o meno fine, filosofo estremo in grado di uccidere per dimostrare a noi tutti ignoranti qualcosa… La mutazione – serve specificarlo? – non è avvenuta nella realtà dove i veri Jeffrey Dahmer hanno continuato ad azzannare sbavando le loro sventurate vittime, ma in letteratura e cinema.

Questa premessa, la denuncia di quest’interessante upgrade, per arrivare a oggi, alle sei ore dedicate a un serial killer immaginario, soprannome Dostojevskij, cui dà la caccia fino a smarrirsi il deragliato poliziotto Filippo Timi, nella prima serie tv firmata per Sky dai fratelli D’Innocenzo.

I fratelli a Berlino nel 2020

Dostojevskij perché è un serial killer che scrive, non certo bene come il tormentato maestro russo, ma nel suo periodare quasi aforistico vergato in stampatello specchia il proprio dolore personale in quello della vita stessa, le cui vittime invece che compatire o proprio per questo massacra.

È un Dostojevskij naïf non molto superiore intellettualmente a un personaggio medio da thriller di genere (da thriller di Donato Carrisi) ma è funzionale allo straordinario occhio cinematografico di Damiano e Fabio D’Innocenzo. I quali mettono in scena i loro personaggi infelici e disturbati – il corpo dei loro protagonisti, Timi e la figlia tossica Carlotta Gamba in primis – in uno spettacolare esterno di rovine e di posti scrausi e scassati, né appartenenti definitamente a una metropoli né alla campagna, ma legati a una miserabile desolazione senza centro e senza certa connotazione sociale, se non infima e stracciona; è un esterno-correlativo oggettivo da dissoluzione dell’individuo ed è in qualche modo internazionale, poiché privo di ogni riscontro patrio (e di ogni riposante concetto patrio), che pare fatto apposta per accogliere il girovagare senza senso e senza speranza di personaggi in difficoltà col proprio io, come l’assassino, il suo sempre più nevrotico cacciatore, e via via tutti gli altri.

Non sto a segnalarvi l’inevitabile. Che muovendosi in questo universo di umanità derelitta e dolente, il cacciatore e il cacciato finiranno per assomigliarsi se in partenza non si assomigliavano già. Questa è del resto, e i fratelli D’Innocenzo non possono ignorarla, la più giocata carta in scrittura e immagini dell’improvement esistenzialista nelle storie di serial killer.

Ciò per dire: i D’Innocenzo non inventano niente e si rifanno a cliché abbondantemente assodati, ma poi si distinguono per la qualità dello sguardo e per la quantità del dissesto descritto. Partono infatti già bassissimi nei gironi dell’inferno (o del sottosuolo) per scendere ancora più che possono, quasi voluttuosamente, come loro abitudine da post-cannibali – non sono forse Damiano e Fabio due eredi dei famosi Cannibali letterari di qualche stagione fa? Non sanno, di sicuro, a memoria Fango di Ammaniti e pure il più recente Come Dio comanda, divenuto poi anche film (nel caso, Timi farebbe bizzarramente da trait d’union)?

I fratelli D’Innocenzo scendono più gradini possibili e passeggiano decisi tra Caina e Malebolge, dicevo, in sei ore molto tese e forse faticose se viste di fila (ma conviene perché il loro è cinema e non tv), che precipitano lente e inesorabili verso una verità alla fin fine anche molto estetizzante: le immagini, più intelligenti del copione e degli arabeschi teorici in stile noir, sono la struttura e non la sovrastruttura di Dostoevskij. Rispetto al bozzettismo di Favolacce, i fratelli si sono affidati “a un modo di girare sanguigno, accorato…, essendo più radicali… non abbiamo usato carrelli, treppiedi. Volevamo restituire una sensazione di turbolenza interiore. L’inquadratura deve essere rabbiosa, figlia degli strappi…” (intervista a Cinematografo). La verità di Dostoevskij, dicevo, sta conficcata nella degradazione più totale e spaventosa. Lo scopo dei registi di Tor Bella Monaca era mandarci una cartolina dall’inferno (o dal sottosuolo)? Ci sono riusciti.

(Credit: MJK 70884 Damiano and Fabio D’Innocenzo (Favolacce, Berlinale 2020)” by Martin Kraft is licensed under CC BY-SA 4.0.)

I social: