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Allonsanfàn
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Elegia Americana: il film di J.D. Vance e dello sfigato popolo Hillbilly

Forse, ai tempi, quando si cercava la voce del popolo, qualche vecchia radio popolare italiana accostava, in piena notte, a un reel irlandese la musica aspra e irsuta degli americani monti Appalachi.

Googlatela voi, io non ricordo bene. Suddetta musica, intesa invece come storia folk di degrado, di un mega territorio sventurato, abitato da autentici Bifolchi – in americano Hillbilly – invade ora la letteratura e il cinema degli States che, essendo enormi, vanno oltre il neo-regionalismo asfittico nostrano – la Basilicata ilare di Papaleo, i trulli rintronati di Zalone (in letteratura non diciamo, perché gli scrittori si offendono).

Così ripeschiamo su Netflix, con il titolo italiano Elegia Americana – ma essendo invece l’originale Hillbilly Elegy – un film di Ron Howard, tratto da un memoir del 2016 già contestato in patria per autorazzismo e/o mancanza di vero Appalachian Factor e/o conservatorismo implicito dell’autore J. D. Vance (oggi esplicito: è balzato alle cronache addirittura come vice Trump!) – forse anche perché lo scrittore di Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis alza il velo su ciò che là non si vuole vedere e che neppure i più acuti politici Democratici avevano capito. Ossia che esiste una popolosa classe bianca e proletarizzata, frustrata e marginale di cui nessuno mai si cura e che, attraverso la grande catena montuosa, tocca il fior fiore degli stati – date uno sguardo a Google Maps, qui comunque siamo in Ohio.

Mettiamola così: in Elegia Americana, il povero J. D. Vance, ex grassone – essendo di ascendenza white trash –, brillantemente svezzatosi pur se bullizzato, ha il colloquio della vita per entrare a Yale, ma deve tornare a casa a precipizio, al bordo delle montagne, proprio il giorno fatidico, perché la madre gli è andata in overdose di eroina. Una roba così, che neanche ci provi a raccontarla alla tua ragazza di città, che è di discendenza indiana e di inscalfibile pazienza biblica.

Sfiga per sfigati. La mamma tossica – una ricciolona addicted all’infelicità dietro il cui trucco si abbruttisce e gigioneggia Amy Adams – che J. D. e la sorella, stanziale commessa di supermarket, amano e proteggono da lei stessa nonostante abbia loro devastato la vita, rendendola un percorso a ostacoli, tra continui traslochi, arresti e ospedalizzazioni varie, in tuffo carpiato nella miseria più nera (non solo spirituale).

Infiniti flashback compongono il quadro completo del film. Che esalta o abbatte, in un ventennio, la reputazione di tutti i protagonisti, e in cui – accanto alla madre, perseguitata prima di tutto dalla sua impossibilità di non essere insignificante – spicca da contraltare narrativo la figura di una nonna occhialuta e secca come un tronco d’albero, capace – per tener sulla retta via i nipoti – di minacciarli con la pistola, dietro o dentro la quale grandma si nasconde una Glenn Close in netta ambizione da Oscar.

Insomma. Squallidi posti dimenticati dagli Usa che contano, dove le infermiere intascano gli antidolorifici invece di darli ai vecchietti; quartieri degradati i cui abitanti coi nervi tesi e il sangue agli occhi sono portati – più che alla scena madre – alla piazzata isterica collettiva in cui si presenta sconsolata, in aiuto a un tso o per un lancio di suppellettili dalla finestra, la polizia.

Volevamo dirvi che il film che narra ciò, a parte gli attori che sfigheggiano troppo nella sfiga per mostrare la loro eccellenza, era vedibile, quasi appassionante, a tratti, ma abbiamo visto che in patria è stato iper spernacchiato. Anche per antipatia – supponiamo – verso il protagonista, bestsellerista repubblicano. Ve lo dico lo stesso: dateci pure un occhio. Ron Howard è un professionista credibile anche se non viene dal popolo degli Hillbilly ma da quello più evoluto degli Happy Days.

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