Tra vita ordinaria ed epopea degli Stati Uniti del primo Novecento, ma anche, nella forma, tra apparente realismo e eccentrico resoconto post moderno, sta la singolare partitura di Ragtime di E.L. Doctorow, romanzo mondo che non disdegna a tratti di fingersi un pezzo di new journalism, quando descrive un comizio zapatista di Emma Goldman, un attentato a Teddy Roosevelt o un funerale a Harlem.
Ma E.L. Doctorow (1931-2015) non è Capote alle prese con True Blood (sangue vero): sorprendendoci, ha puntualizzato che “one of the governing ideas of this book is that facts are as much of an illusion as anything else. And that the line between fact and fiction is not as clearly defined as we think it is”.
Per questo, con il suo brillante tour de force narrativo, Doctorow invita per via metafisica a seguirlo mentre interpreta lo spirito dell’era del ragtime.
Doctorow cambia di continuo storia, nel momento in cui entra nei fatti e ne fa fuochi d’artificio, usando per cucire la trama le vicende di una Famiglia bianca e benestante di New Rochelle, sempre in affanno nelle sue assennate convinzioni e all’inseguimento degli eventi. Riserva invece agli ospiti fiammanti incursioni (l’equivalente letterario del sincopato tempo del ragtime): su tutte, quella di Coalhouse Walker, il pianista nero che desidera cocciutamente riparare a un’ingiustizia, per il quale Doctorow realizza addirittura una cover del Michael Kohlhaas di Kleist.
La gente comune, di pura fantasia, e le stelle d’epoca, reinventate – per esempio, un Harry Houdini straziante e funereo escapista – si inseguono tra le pagine, specchiandosi nel gioco (nel lavorio, viene da dire) della letteratura che si specchia a sua volta nel suo opposto, l’inumano capitalismo americano, da Pierpont Morgan a Henry Ford e ritorno, inscenando la rutilante nullità della vita a cottimo di infiniti individui tra loro intercambiabili.
Posso capire perché non mi era entrato nel cuore Ragtime (1974 in USA, 1976 da noi) quando l’avevo letto da ragazzino. Troppo intelligente e spiazzante nel suo scorrere – lo scorrere (lento come da suggerimento ma inesorabile) delle mani di Scott Joplin su una tastiera. Il ragtime dei miei tempi era tra l’altro il Maple Leaf Rag spurio, lesto e acrobatico di Keith Emerson. Forse proprio per una ragione musicale mi viene voglia di leggere Ragtime in originale perché Doctorow – bravura del traduttore Bruno Fonzi a parte – swinga davvero tra le parole, mentre le incastra tra loro come le note di una partitura sincera ma pure derisoria delle pretese del pubblico borghese di noi fedeli e ingenui lettori.
Ragtime, la musica: a un certo punto, il Fratello della Madre, innamorato disperato e rivoluzionario tiepido, pensa di gettarsi sotto il treno del latte diretto a New Rochelle. Il ritmo delle ruote, il loro suono continuo, gli ricordano il lavoro della mano sinistra in un rag. Il clangore del metallo tra due vagoni che sbattono quello della mano destra… Scrive meglio Doctorow o suona meglio Scott Joplin?
Ragtime, il libro: era troppo per me ragazzino, me ne accorgo mentre lo termino oggi edito in un brutto Oscar trovato su una bancarella: la copertina anonima è tratta da un fotogramma del film non indimenticabile di Milos Forman. Sarebbe stata meglio un’illustrazione di Ferenc Pintér.
Allora, forse, cercavo le spacconate di Hemingway, il romanticismo che colava dal pasticcio di Fiesta verso la figura capricciosa e così “femminile” di Lady Brett o piuttosto la sentimentalità zen di J.D. Salinger quando uno straniato Seymour Glass discorre sulla spiaggia con una bambina in “un giorno ideale per i pescibana”. Ma quella era letteratura ancora appartenente a un lungo dopoguerra, E.L. Doctorow era già uno scrittore contemporaneo…
A margine. Nel 1982 Kate Bush interpreta la canzone Houdini, quella che ha il famoso verso con il trucco svelato (ma è poi vero?): With a kiss, I’d pass the key… Nell’estate 2024, invece, risuona un nuovo pezzo intitolato Houdini, opera del redivivo Eminem, che rima il nome del mago con Sherri Papini, escapista da cronaca rosa o mini serie tv: bullshit.