All’arrivo al piccolo aeroporto di Le Mans, entro nella struttura di accoglienza e in cambio della ricevuta di accredito stampata esco con tre bracciali, grigio nero e dorato (il più prezioso, scoprirò poi perché). Poco oltre, seguendo quel logo con un 2 iniziale che richiama la silhouette della chicane Michelin sul rettilineo delle Hunaudières, e che diverrà ossessivo ricorso in ogni punto del circuito, al Centre de accreditations della 24H di Le Mans – fuori dal quale sono parcheggiate in ordine auto di uso quotidiano e coloratissime vetture che paiono da gara (e forse lo sono) mentre a confondere le idee ci sono anche i legittimi proprietari che vestono giubbottini vintage da pilota brandizzatissimi e Aviator con lenti a specchio da attori consumati – nei pressi dello stadio, appollaiato dietro il circuito, come un piccione dimenticato con quella insegna demodé, pronto a volar via al primo scoppio di motore, stavolta dietro mail di conferma, mi consegnano un badge da mettere al collo con la mia foto e la qualifica per essere ammesso, quest’anno, duemilaventiquattro, alla annuale corsa della ventiquattrore. Un esperimento di resistenza umana a oltranza, per piloti (186), addetti ai lavori e spettatori pure paganti: una gara che inizierà alle 16 del sabato per finire alla stessa ora della domenica, auto partenti 63, di varie classi e misure, uguale percorso – più della metà dei tredici e rotti chilometri su strade urbane, il resto sulla pista Bugatti, mentre già per entrare al circuito tocca mettersi in coda, in macchina ovviamente, un van della Volkswagen che suona indispettito causa cinture non allacciate dei passeggeri ficcati con la schiena contro il baule carico di trolley: siamo quattro italiani, un rumeno e due tedeschi – uguale percorso ma cilindrate diverse (per ora accontentati, ma la questione è complessa assai) in un mix che se d’emblé appare democratico in realtà si rivela presto assai classista, perché le hypercar dei grandi brand del luxury motoristico (Porsche, Ferrari, Lamborghini, Cadillac, Corvette…) vanno il doppio e gli altri dietro a pedalare come comprimari, quasi funzionali nel loro arrancare a rendere meno monotona e più incerta, col loro semplice trovarsi in mezzo al cazzo, la gara. Ma nemmeno semplificare così aiuta, perché un pop brand come Toyota ad esempio se la gioca alla pari con i big, vedo scorrendo la classifica attuale, e comunque le altre scuderie (la differenza alla fine la fanno sempre i cavalli), per classe, concorrono tra loro e quindi la corsa è una specie di matrioska dentro la quale ci sono almeno altre tre corse, e altrettanto vale per i piloti perché alcuni sono magari non proprio prime firme della F1 (da Giovinazzi a Kubica, passando per Grosjean, Button, Mick Schumacher, De Vries) ma vi hanno partecipato in anni più giovanili o fortunati, e se la devono vedere con specialisti della categoria (come Buemi e Bourdais) oppure centauri delle due ruote in cerca di rinnovati brividi ma anche con bilionari, attori appassionati e proprietari di scuderie con qualche ambizione. La Isotta Fraschini – che ad alcuni ricorderà la canzone di Pippo Franco del 1977: strombetta metti la marcia e vai… – concluderà con un quattordicesimo posto che vale una vittoria, pur a nove giri dalla Ferrari prima classificata.
Alloggio all’interno del parco, oltre lo stadio, e salendo sul terrapieno che fa da argine a una gimcana dopo il ponte centenario di Dunlop fatto con uno pneumatico tagliato a metà si vede la pista di un aeroporto privato. Nel programma di viaggio precisano che pernotteremo a trecento metri dal Circuit de la Sarthe (l’impermanente somma del Bugatti più le strade dipartimentali D338 e D139), così per avvisarmi che il sonno sarà complicato (ma non si viene certo per dormire perché l’eccezionale sta proprio nel vedere correre le auto a fari accesi nella notte, con le luci dei freni e i tubi di scarico in fiamme) e infatti trovo dei simpatici tappi per le orecchie in dotazione nella cabina di derivazione nipponica che in tre metri quadri riduce all’essenziale tutto ciò che è necessario a un soggiorno, inteso proprio come abitare, hyperminimale: lavabo con cassettiera, doccia con tazza, e due letti a castello dei quali uno, visto che a ogni ospite è dedicata una cabina, appare subito lusso in quanto superfluo. Non c’è il bidè, si potrebbe obiettare, ma tanto il bidè in Francia neanche nel cinque stelle, ma ci sono due asciugamani bianchi, doppio rotolo di carta igienica, un sacco piumone e un plaid di lana… e un ombrello di cortesia… se la finestrella sulla porta è inchiodata, ma munita di tendina, in fondo al letto c’è la tivù. Ventola nel bagno che si chiude a scorrimento e condizionatore. Per chi come me non riesce a dormire se non ha almeno uno spiffero, un pratico fermaporta per fare entrare un po’ d’aria gitana, in realtà la porta così resta proprio spalancata, e la notte si scende sui dieci gradi, perciò infilo il tappetino dell’ingresso tra il battente e il pannello coibentato per avere una fessura della dimensione giusta.
Fuori dal campo chiamiamolo pure base – è a tutti gli effetti una spedizione questa di Le Mans – con le sue sei file di cabine per cinque alloggi ciascuna, chiamano lodge una tenda con beni di prima necessità: una macchina Nespresso, qualche merendina (Twix, Kit Kat, Lion) e biscottini tondi con cioccolato, un numero di telefono per le emergenze. Davanti sostano automobiline elettriche tipo car golf che agevolano i trasferimenti verso il Centro Media e l’accoglienza del brand ospite dove normalmente si consumano colazioni e pasti, se si riesce a rispettare gli orari perché nel caso nostro si ha a che fare con la proverbiale rigidità tedesca e alle dieci di mattina, come alle 14 e alle 21, cibo e bevande vengono ritirate dal buffet con cronometrata puntualità teutonica.
Arrivo di venerdì, il giorno precedente alla gara, e così nel mega stand dedicato assisto alla presentazione di uno dei team in gara (in questo caso, come realizzerò presto, le scuderie più prestigiose correranno con più squadre di piloti, anche tre con tre driver più uno di riserva) tra personale al lavoro e membri ufficiali dell’azienda loggati sui cappellini, sui giubbotti bianchi e neri rifiniti di rosso di un celebre Premium brand di moda. La presentatrice, una signora bionda in un azzardato tailleur verde squillante, sembra preoccupata di ingraziarsi simpaticamente il favore dell’audience mentre sul palco si alternano i protagonisti miscelati ad alcune iniziative collaterali come quella benefica per raccogliere fondi per sostenere le cure delle popolazioni meno fortunate: un accordo che prevede di devolvere una cifra pattuita per ogni giro effettuato da una macchina in corsa e che al termine, non si sa quanto casualmente, si attesterà sull’onorevole cifra di 911 mila euro, un numero significativo nella numerologia della casa tedesca di autovetture. Al termine, cronisti televisivi e content creator si contendono alcuni piloti, le cui facce scolpite in un vago imbarazzo potrebbero essere quelle degli attori che nel tempo hanno interpretato altri piloti nei film che l’industria cinematografica ha dedicato alla corsa, reputandola dotata di certi stilemi propri della narrazione hollywoodiana: il rischio, la suspense, la velocità ma anche gli intrecci esplosivi tra piloti romantici e regole dell’industria automobilistica, le inevitabili love story con le bellissime donne che circolano nei box e di cui avrò poi conferma sulla grid walk. Vengono in mente i classici Paul Newman e Steve McQueen come i più recenti Christian Bale e Matt Damon, così come Michel Vaillant nell’omonimo fumetto poi interpretato dall’attore Henri Grandsire, a sua volta pilota a Le Mans, in una serie di rimandi anamorfici tra realtà e fantasia. Dopo un pranzo a buffet accompagnato da provvida birra, mi viene dato un biglietto con corsa di andata e ritorno per Le Mans, intesa come cittadina, una mezz’oretta di tram fino a Place de Republique, dove ogni anno si tiene, il giorno antecedente la gara, la parata delle automobili. Occasione ghiotta per farsi un’idea generale del pubblico presente poi nell’autodromo, perché all’interno del circuito i primi spettatori gironzolano senza costrutto e anche gli addetti ai lavori li vedi abbarbicati oziosi intorno agli scheletri delle vetture, come cercassero una ragione tutta interiore – dopo le prove e le qualifiche – a questa prolungata attesa. La strada ferrata spalanca ai finestrini un paesaggio di placide case a graticcio dai tetti spioventi (fino a ieri e di nuovo da lunedì, per altri trecento uguali sessantadue giorni) su quinte di cieli azzurri traversati da nuvolette candide, una boule de neige dove alla neve silenziosa va sostituito il chiasso dei tifosi a breve in magica armonia col tuonare dei motori in parata. Le strade sono colme di gente in festa – si possono chiamare tifosi? Si può realmente parteggiare per un team di auto da corsa e odiarne un altro? -, ognuno con i colori della sua scuderia, o con le bandiere nazionali, mentre cercare di raggiungere il Cafè Madeleine si rivela da subito più complicato del previsto, tra majorette, artisti di strada, figuranti di Disney, cosplay, ufo robot, manga, anime, orchestrine jazz, ballerini, clan scozzesi in kilt, acchiappafantasmi, indigeni amazzonici con alti copricapi e tamburi, quasi muti nel frastuono generale di trombette e vuvuzuela, in un tripudio realmente festante di bandierine azzurre e cappellini, manone di gommapiuma e pinte di birra… ecco si berrà birra, solo birra, per tutti i tre giorni, e tocca adeguarsi per far comunella con la folla, pena essere allontanati come choosy fastidiosi, con qualche rara concessione allo champagne nei posti accoglienza come ai due piani terrazzati del Madeleine con vista privata a volo d’angelo, oggigiorno meglio dire a drone, sulle macchine d’epoca e le auto da corsa che sfilano per le vie del centro… auto dalle quali i piloti rispondono agli osanna lanciando chi magliette, chi ogni sorta di gadget e cotillon (portachiavi, bracciali, cerchietti, bandana, cappellini con visiera…) che subito vengono risucchiati dalle braccia tese come corolle di fiori carnivori che si aprono per poi immediatamente richiudersi intorno ai fortunati che si sono aggiudicati l’agognato totem. Quando appare Valentino, la folla sembra fluttuare a ondate, scomponendosi per poi raggrupparsi nelle curve dove la sua auto scoperta rallenta e lui – seduto in cresta al sedile posteriore – si concede sorridendo, tra il compiaciuto e il beffardo, la sua cifra caratteriale, ai saluti e agli applausi, lanciando qualche gadget ai più fortunati che lo acchiappano al volo.
La sera dopo una rapida doccia – la temperatura scende e di parecchio e un vento gelido dal nord inizia a portare sprazzi di pioggia, a volte soltanto fastidiosi a volte scroscianti – si va a mangiare in un’area attrezzata a barbecue, con grigliata di carne e patate di ogni foggia, insalate e salsette varie, qualche bicchiere di vino e la solita birra mentre su uno schermo va in onda la partita inaugurale degli Europei che vede in campo la Germania, ragion per cui tutti hanno svestito le griffe della Porsche per indossare quelle bianche e nere della nazionale di calcio. Prima che il sole tramonti, salgo sul terrapieno a guardare la pista deserta, pare un enorme serpente d’asfalto in attesa.
Ci facciamo accompagnare al campo sterrato più avanti dove stasera suonano gli Hofenbach, una coppia di deejay francesi e domani sono attesi i Simple Minds. Anche qui birrerie, sale da giochi vintage, la ruota panoramica, i fuochi d’artificio. La folla si comprime e si espande sotto l’enorme palco dove i due protagonisti incendiati dalle luci sono rilanciati sui grandi schermi disposti ai lati per chi è più lontano mentre ricampionano a modo loro in chiave electropop una serie di successi.
Il giorno della gara, la mattina, senza fretta, ci si reca in processione all’autodromo sfruttando una delle macchine di cortesia a nostra disposizione, lasciata la quale ci si immerge nella corrente dei fan che che tracima fino agli ingressi riservati per poi essere smistata a seconda delle lettere riportate sul badge, una per ogni area del circuito, da scrupolosi ragazzi (molto probabilmente del posto) addetti alla selezione. A quel punto il circuito pare sgrezzarsi nelle prime due macro aree: quelli che hanno accesso al mondo privato e rutilante delle grandi scuderie con sguardo sul backstage e quelli che si devono accontentare di continuare a sognarlo, il paddock, sostando tra chioschi popolari e venditori di merchandising.
Prima dell’inizio della corsa, abbiamo anche lecito accesso al rettifilo davanti alle tribune (ecco perché l’oro del bracciale). Si percorre la strada che costeggia il retro dei box, tra carrelli che trasportano set di pneumatici, caschi, pezzi di carrozzeria fluo amputati come membra sexy di automobili luccicanti in un film allucinato di Cronenberg, ma che potrebbero anche essere oscene parti umane in titanio in un film della Ducurnau, ragazze in gruppo e in divisa (sempre pateticamente antistoriche e decisamente fuori moda con quei cache col improbabili annodati alla Audrey Hepburn), meccanici in pausa con le grandi cuffie sulla testa, altri indaffarati tra gli stretti passaggi che delimitano le aree di lavoro, o in per nulla casuale sosta davanti ai monitor, tra i teloni colorati, a protezione degli oscuri segreti della velocità. All’occhio attento capita anche di incappare in certi inciuci clandestini da dietro le quinte, con un lui e una lei a scambiarsi effusioni con le tute di due team rivali. Si indovinano dai pertugi officine, laboratori, salette attrezzate con computer ma anche cucine da campo, attrezzi ginnici, brandine. Si svita, si avvita, si incastra, si misura, si rabbocca, ma anche si lucida, si smussa, si olia, si calcola, si progetta, si pressurizza… gli ultimi ritocchi prima dell’ingresso in scena di queste che tautologicamente – lo dice il nome, hypercar – sono auto esponenziali, supercar lanciate quasi costantemente e per una durata oltre meccanica a più di 300 km/h. Tentando di prevedere anche l’imprevisto, il caso che in una corsa di velocità e di resistenza pura può sconvolgere in un attimo piani e assetti studiati per giorni.
E poi c’è il rumore, spezzato da intervalli bislunghi di silenzi colmi alla John Cage, carichi di attesa e di conferme: il rombo del motore che strappa, sale di giri, grida disperato, ebbro di potenza e velocità e poi sfiata, gracchia dopo l’acuto ma è solo un modo per riprendere forza mentre altri motori si sovrappongono e allora è una sinfonia automatica che ha qualcosa di animalesco ma anche di troppo umano, di terribile, qualcosa che ha che fare con l’orrore, con l’evocazione dello slancio vitale pronto a scoppiare in mille diverse direzioni e col rimosso da sempre, con la morte e il suo esorcismo. C’è chi si profuma con due dita di benzina sui polsi e sul collo per sentire addosso l’odore del mostro.
Se ieri sembrava d’essere in una boule ora netta è l’impressione che si sia dentro una sfera autoreferente – che sia la filter bubble di Eli Pariser o una bolla di Sloterdijk, e il cronista sprovveduto sia magari il tipo dell’incisione di Flammarion che guarda fuori curioso dalla sua di bolla, piovuto qui per caso – una sfera che coinvolge generazioni diverse, uomini e anche donne, si direbbe trasversali, e all’interno della quale si condividono come iniziati ai misteri della meccanica (la F1 è roba pop al confronto) sigle, codici, regole inderogabili ma anche passione, masochismo per il rumore costante dei motori tirati al massimo dei giri, odore di carburante e gomma bruciata, headphones, giubbotti coi colori e il lettering delle scuderie e ombrelli (piove spesso e i più preparati arrivano con parapioggia familiari che recitano apotropaici “Putaine de pluie”). Chi è nel mood sa tutto, chi ne era fuori fino a ieri fatica a raccapezzarsi. Faccio ordine (chi conosce il significato di LMH, LMDh, LMGT3, LMP2 o è più interessato al sentimento può passare al paragrafo seguente).
Il WEC (World Endurance Championship), il Campionato del mondo endurance FIA, è un campionato mondiale automobilistico che vede concorrere in gare di durata vetture Sport Prototipo e Gran Turismo: organizzato dall’Automobile Club de l’Ouest (ACO), è disciplinato dalla Federazione Internazionale dell’Automobile (FIA). Quest’anno con i nuovi brand come BMW, Lamborghini, Isotta Fraschini e Alpine il numero delle vetture hypercar al via sono 19 contro le 13 del 2023.
Ma se le vetture hypercar possono essere costruite secondo due regolamenti tecnici – LMH (Le Mans Hypercar), che permette ai costruttori di progettare e costruire le loro auto, e LMDh (Le Mans Daytona h), che utilizza i telai dei costruttori autorizzati – al campionato concorrono anche le vetture delle nuove piattaforme. E qui le cose si fanno più complicate perché la classe LMGT3, derivata dalla piattaforma tecnica GT3, rappresenta non solo una novità ma va a sostituire in toto le precedenti vetture LMGTE, in griglia fin dal 2012 (un’epoca fa). E se per loro si parla sempre di auto derivanti dalla produzione affidate a team di sviluppatori, le vetture GT derivate dai modelli di serie con potenza oscillante tra i 500 e i 600 CV sono forse meno sofisticate della categoria precedente per l’aerodinamica ma dotate di Abs. Infine, a Le Mans c’è il grande ritorno delle auto LMP2 che non sono presenti nelle altre gare del WEC 2024 e che per non essere concorrenziali alla classe regina delle hypercar sono soggette ad alcune limitazioni (peso maggiore e soprattutto serbatoio più piccolo, e 50 cavalli in meno di potenza).
Se LMH richiede l’omologazione di 20 esemplari omologati per la vendita e la circolazione stradale, LMDh non impone limitazioni specifiche sul numero di esemplari omologati. Quanto al motore, LMH permette l’utilizzo di motori quattro tempi alimentati a benzina con cilindrata libera, mentre LMDh utilizza motori ibridi con componenti elettrici e una potenza massima totale di 500 kW (680 CV). Il tutto si traduce in un vantaggio economico delle vetture LMDh rispetto alle LMH, usufruendo di telai forniti da costruttori autorizzati e di motori ibridi e riducendo così i costi di sviluppo e produzione. Differenze tecnologiche e regolamentari che hanno portato a una significativa differenziazione tra le vetture LMH e LMDh nel WEC 2024.
La soluzione per portare un minimo di equilibrio tra vetture così diverse è il Balance of Performance, accettato da tutti i costruttori, in modo da bilanciare il potenziale delle vetture in termini di prestazione. Il BoP non interferisce sulle prestazioni né sui quei fattori determinanti nell’economia di una gara come ovvio l’abilità dei piloti ma anche la corretta gestione degli pneumatici o la scaltra efficienza del pit stop, ma basandosi su dati raccolti a ogni gara si introduce un handicap variabile di peso per il quale se un brand è in media più veloce rispetto a un costruttore medio, si deve sobbarcare una zavorra per rallentare la vettura col proposito di livellare le differenze di velocità. L’unica eccezione è proprio qui a Le Mans dove il BoP tiene conto non delle gare del campionato in corso ma dei dati della gara dell’anno precedente.
Si pranza a buffet al Porsche Team & Media Hospitality, che oggi ha fuori un cartello che recita “Only Drivers Food Today”, e si beve birra, naturalmente.
Sono in pista, non più spettatore ma sicuramente nemmeno attore. Una comparsa, ecco, tra la folla che invade la pista a pochi minuti dallo start, con un punto d’osservazione privilegiato che resiste – fino a quando? – alla tentazione narcisa di mettersi in mezzo, anche solo per un selfie accanto alla Porsche in prima fila, vicino al gonfiabile vagamente fallico che recita Pole, o ancora oltre dove alle spalle c’è solo la riga bianca continua che sale appena per sparire all’orizzonte, là dove non ci sono più le tribune con i loro palchi premium ma solo la folla assiepata sui terrapieni, la gente, i normal people, venuta con le sdraio, l’impermeabile di plastica, i thermos e qualche genere di conforto per sopravvivere – loro come i piloti in pista, in uno scambio che vuole essere partecipato – alla notte e al giorno che verrà poi. E la prima domanda è: come è possibile concentrarsi in questo caos di particelle impazzite, tra le troupe a caccia di interviste last minute (le impressioni prima della gara, in gergo sportivo), le vamp in cerca di notorietà, gli amatori col naso nelle pastiglie dei freni, i fotografi professionisti con l’elmetto militare e lo zoom a sfrucugliare nella postazione di guida, le ballerine, i giocolieri e i draghi viola gonfiabili? Cos’è questa esplosione così simile a un carnevale? Una festa prolungata a misura della lunghezza della gara? Un incantesimo di buona fortuna? Un modo di celebrare la vita perché la curva là in fondo nasconde l’ignoto, forse la fine? Un modo di dimostrare la propria vicinanza ai protagonisti dello show? E gli ingegneri e i meccanici come vivono questa attesa chiassosa, di allegria esasperata e contagiosa, tra scoppi di risa, pacche sulle spalle, riff di musica festante che per loro è soltanto e comunque parte del lavoro? E ancora, i piloti dietro gli occhiali a specchio e le bandane, le mani nelle tasche delle tute, conserte in piedi o sul pacco con le gambe fuori dall’abitacolo, la portiera spalancata ad ala di farfalla, prima di indossare i caschi integrali e integrarsi con le auto, smaterializzarsi in quanto uomini per rinascere in forma di mitologici centauri, hanno pazienza sovrumana in quanto il rito è parte del gioco, si compiacciono nello spararsi le pose da eroi o semplicemente sono in grado di spegnersi e riaccendersi premendo su di sé un invisibile pulsante dello start?
La prima cosa che salta all’occhio se si è visto il famoso film con Steve McQueen è la differenza tra i brand dell’epoca (era il 1966) e quelli di adesso. Allora, Martini, Total, Firestone, Shell, Dunlop, Elf, Bardhal, Dutray, Matri-Simca, Solex, Gulf, Cibie, Autolite, Ferodo, Magneti Marelli, BP, Champion, Esso, Heuer, Koni… ora Rolex, Hertz, Ansys, RMC, Motul, Mobil, Elf, Goodyear, Raceborn, DHL, Bosch, TG Heuer… mentre l’omino di gomme della Michelin è sempre qui e si sbatte un casino a battere il cinque alto e a posare per le foto prima di tornare sulla torre di segnalazione all’uscita della pit-line a comunicare in tempo reale gli aggiornamenti di classifica al pubblico che, grazie a questa struttura, potrà essere sempre al corrente della situazione di gara. Inizio raggiungendo il fondo, dove la tribuna si chiude – con una magnifica vista presuppongo da qua sotto sull’entrata nello schuss finale – con l’architettura pendente a semicerchi sovrapposti con vetrate e balconate a ricordare la poppa di una nave da crociera rifinita in giallo e blu, per poi risalire fino alla linea di partenza. Le auto – verdi, gialle, bianche, azzurre, argento, nere, arancione… – sono ancora in parte sollevate sui carrelli, e protette da esili colonnine tendinastro dalla folla che si assiepa intorno a ogni vettura per sbirciare i cruscotti, scrutare gli interni, carpire esoterici segreti con gli smartphone o semplicemente spararsi dei selfie con le stesse auto ravvivandosi le pettinature, arricciando le labbra nelle duck face, inclinando i display frontalmente al di sopra della testa, sorridendo a compiacenti familiari e colleghi con le dita a V o alzando il pollice in segno di soddisfatta meraviglia, abbracciando il pilota di turno, le cuffie anti rumore abbassate sulle orecchie, tra l’entusiasmo divertito di amici e sconosciuti… gente di tutte le età, dai ragazzini alle signore con borsetta che avrebbero sicuramente da dire sul cache col, indossandolo loro sui piumini impermeabili, sotto le felpe con cappuccio, sui giubbottini di pelle… non c’è un dress code, si va dalle tute intere ai pantaloni di pelle o in cotone, dall’Impermeabile classico alla giacchetta sportiva, dal giubbotto di jeans al maglioncino annodato sopra la camicia a righe, dal ball cap alla coppola a scacchi bianconeri al berretto colorato di lana con pompon, alla feluca, dai cappellini da pescatore in jeans allo scozzese Jackie Stewart hat (dal nome del pilota che lo rese celebre nei Settanta)… sotto lo sguardo un po’ d’invidia di chi assiste di là dalla rete di recinzione, e ride e applaude sinceramente, e diventa a sua volta, in uno scambio reciproco, soggetto da immortalare per i meccanici che fotografano loro, gli spettatori, e quelli allora a loro volta si mettono in posa, non si sa se per renderli ancora più partecipi o beandosi, da gregari, di tanta insperata considerazione. Poi, nella folla si fanno largo i trampolieri, ballerini al ritmo della samba e subito dopo, sempre risalendo la pit lane, ecco le majorettes bianche rosse e azzurre del can-can… e una bellissima bionda che pare disegnata da Manara, con labbra e nasino e occhi perfetti, accanto ai meccanici in rosso della Ferrari, lei vestita con un maglione a revers panna dal quale emerge il collo eburneo circondato da un esile filo d’oro e pantaloni di cotone immacolati sotto un ampio giaccone giallo che la protegge come la conchiglia di Venere, un’apparizione che toglie il fiato e ristabilisce d’incanto l’ordine delle cose importanti nel paradigmatico eterno dilemma maschile tra donne e motori. Si rimarrebbe incantati a guardarla non fosse che lo speaker annuncia i cinque minuti allo sgombero e c’è ancora un pezzo di rettifilo da fare per arrivare alla linea di partenza, cercare Valentino, farsi scattare dall’immancabile nipponico con l’attrezzatura giusta una foto ricordo con la riga bianca e i cordoli gialloblu alle spalle che dopo la prima curva volgono su dove la pista disegna l’orizzonte.
Ci spingono all’uscita laterale e subito si chiudono i cancelli, mentre un codazzo dirige e protegge Zidane verso la linea di partenza dove tra poco lo stesso Zinedine darà, quest’anno, il via alla corsa. La gara di resistenza per eccellenza dove l’auto più veloce percorrerà oltre 5.000 km a una velocità media di oltre 200 km/h e a vincere sarà non chi taglierà per primo il traguardo ma chi avrà percorso a quel punto il maggior numero di chilometri. Metto su la faccia di chi sa quel che sta facendo (in realtà non lo so per niente, sto solo improvvisando per trovare un posto consono da dove vedere i bolidi scattare), mentre gli addetti e i commissari di gara – perlopiù degli anziani, uomini e donne, con felpe arancioni e pantaloni ad alta visibilità in pendant, ma anche qualche soggetto più giovane, come il nero che si è tinto i capelli di blu e le ragazzine finto calate nella parte – mandano via gli ultimi intrusi restii ad abbandonare la pista e con i quali condivido lo stesso impellente problema. Rinculo allora dietro il primo cancello, che tanto immagino si chiuderà presto, ormai troppo tardi per provare a raggiungere la balconata Porsche Motorsport Lounge alle mie spalle (sarei comunque nelle retrovie costretto ad alzarmi sulle punte in terza o quarta fila con la certezza matematica di non vedere nulla). Così, prima mi avvicino lemme lemme a una coppia di indiani ai quali un addetto – un signore in pensione di quelli che sicuramente fanno i volontari per il circuito – ha concesso di sostare su una leggera pendenza in cemento che dà su dei magazzini segnando loro il punto, una striscia gialla e nera prima della metà della salita, per motivi suoi oscuri a tutti, in primis ai due indiani che essendo nel punto più alto sono comunque gli unici a scorgere approssimativamente la linea di partenza, da non oltrepassare. Ma in meno di un minuto, a pochi istanti dal via che a questo punto vale più di tutte le ventiquattro ore successive, anche lì provvisori, ci ritroviamo a essere più di una dozzina senza che si riesca a vedere più di tanto. È a questo punto che noto dalla parte opposta del cancello una scaletta di alluminio che sale a un altro terrazzamento che ha tutta l’aria di essere un privé riservato visti i personaggi brandizzati che si sporgono sul rettilineo. Alla base, in precaria protezione dell’accesso c’è solo una barriera Jersey, uno di quei parallelepipedi di plastica bianca che si usano nei cantieri per incanalare il flusso stradale. Mi ci avvicino con l’aria da rottinculo di un imbranato Will Coyote, poi svelto svicolo dietro il Jersey e salgo finto indifferente la scala di quel tanto che basta per arrivare all’altezza giusta per avere la visuale completa della pit lane fino al primo scavallamento. Non si fa più da anni la coreografica partenza lanciata correndo dal lato della pista opposto alle vetture schierate a spina di pesce con il motore ancora spento, ragione per la quale la Porsche a tutt’oggi ha l’accensione a sinistra così da permettere al pilota, dopo aver scavalcato la portiera, di ingranare subito la prima con la mano destra. Se ha piovuto subito dopo il warm up della mattina, ora il tempo sembra tenere sotto i nuvoloni grigi e blu che attendono infingardi il loro turno da protagonisti.
Sventola la bandiera verde e una a una le vetture cominciano a partire in fila indiana per il lungo giro di formazione al termine del quale nel rombo che si fa più pressante spunta la celeberrima fronte pelata dello starter con la bandiera tricolore della Francia sul quale è ricamata in oro la scritta 24H Le Mans – non già quella a scacchi che mi sarei aspettato – e le macchine dopo avere mantenuto le posizioni, senza fermarsi ad alcun semaforo, di rincorsa come l’ultimo cavallo al Palio di Siena sono ora libere di scatenare la bagarre. Il rumore, ecco. Ora svanisce dopo che tutte le vetture si sono avviate, e prima che si compia il primo giro c’è un intervallo lungo da riempire – se è vero che il silenzio non esiste nemmeno in una camera anecoica – con un’attesa densa di sguardi, di schiocchi di parole in diverse lingue, di movimenti appena accennati: sono più o meno i 3’14”791 con i quali nel 2017 la Toyota di Kamui Kobayashi ha battuto un record trentennale stabilendo nelle qualifiche un tempo destinato a rimanere a lungo (le hypercar oggi sono meno veloci). Kobayashi che potrebbe essere l’equivalente motoristico del pallanotista morettiano Budavari, un vero kamikaze in Formula Uno, e qui protagonista del siparietto più divertente quando nella notte, sorpassando il calabrese Antonio Fuoco – poi vincitore dell’edizione di quest’anno con la Ferrari 499P Hypercar numero 50 insieme a Nicklas Nielsen e Miguel Molina – alla staccata di Indianapolis a 320 km/h ha trovato il tempo – mentre dal box Ferrari gli avranno sicuramente urlato “Marca Kobayashi, marca Kobayashi” – di mostragli un dito medio dal finestrino. Sono solo i primi giri, poi il rombo diventerà, causa sorpassi e attardamenti, quasi costante distribuendosi le auto lungo tutto il circuito: gli intervalli di silenzio diventeranno imprevedibili, componendo coi motori una partitura sempre piena di quel nulla che è il rumore costante del mondo, quella musica che è nei tasti che batto al computer ma anche nei battiti del cuore mentre attendo con fiducia le frasi da scrivere, suoni anch’essi.
Ci fanno scendere, ma ormai è andata. Così proseguo il mio tour personale infilandomi con un accodamento fortunato nella zona dei palchi riservati sopra il paddock a presunti ospiti speciali, familiari dei tecnici, membri del management… salgo un paio di rampe poi approfitto della momentanea assenza dello steward con la lista degli ospiti per introdurmi in uno di essi facendomi largo tra il buffet e il servizio bar fino ad arrivare a pochi centimetri dalla veranda con affaccio privilegiato sulla linea del traguardo così da scattare qualche foto prima di sentire una mano decisa sul fianco e una voce femminile che mi appella “Monsieur” e poi, quando mi giro, mi invita frettolosa ad uscire non senza che la senta ringraziare la coppia dei delatori che mi aveva sorpreso in flagrante imbuco.
Ridisceso incontro casualmente il terzetto di italiani con i quali si decide di andare verso un altro punto della pista. Una buona occasione per camminare a fianco del circuito nell’andirivieni degli spettatori che di nuovo frammentano, multiformi, il mondo delle corse. Così accanto agli stanziali, siano essi accampati come allegri campeggiatori o seduti ai tavolacci in legno da fiera di paese davanti ai boccali di birra, appesi alle recinzioni scalate sotto l’occhio di mamme o consorti premurose, concentrati sulla maratona appena all’inizio o più interessati a percepirne il contorno, sfoggiando gli outfit preparati per distinguersi dagli altri, partecipando a quello che sommariamente si potrebbe definire il colore, si incrocia il passo col popolo sempre in movimento, se si eccettua qualche pit stop ai bagni chimici, o contro un muro per fare alla svelta, in un percorso adiacente ma spesso contrario al senso di marcia delle vetture, dei rabdomanti sempre alla ricerca spasmodica del punto migliore d’osservazione o della fortunata coincidenza che li conduca, come pescatori irrequieti, a incrociare spazio e tempo nella casella buona per cogliere l’agognato sorpasso e l’altrettanto anelato ma inconfessabile incidente.
Partita la gara, è talmente complesso il seguirla dal vivo, che piano piano l’evento si risolve nel vedere passare le vetture o nel fare semplicemente festa: un happening dove ognuno si affaccenda in compagnia intorno ai suoi passatempi e la corsa diviene un indistinto continuo tuonare, un basso continuo che alla fine si riduce a un acufene, un semplice ronzio, come un palco sul quale si svolge un concerto ma si è più interessati a stare a bordo pista, a prendere il bus che sosta alle varie curve, a campeggiare nelle piazzole designate per tende e camper a fumare, bere, giocare, flirtare, e per assuefazione può pure scomparire relegato sullo sfondo, a semplice pretesto. Ogni tanto si dà un occhio a un aggiornamento, si domanda un ragguaglio sulla classifica a chi segue con più partecipazione, un orecchio alla radio dell’evento. Si potrebbe fare un film alla Andy Wharol con camera fissa su un unico spettatore, per ventiquattro interminabili ore.
A giugno, il buio arriva tardi la sera. Alle 22, rientrato nel mio box notturno per una rapida doccia senza lavare i capelli (il phon non è in dotazione e il freddo sconsiglia gesti esteticamente inconsulti) e dopo aver cenato al buffet del Centro accoglienza e aver tardato per vedere la prima partita dell’Italia all’Europeo, ci siamo diretti al concerto dei Simple Minds per una botta di nostalgia anni Ottanta solo per scoprire che per qualche ragione ignota – a maggior ragione sapendo che c’è tutta una notte di gara da passare – Jim Kerr e soci avevano iniziato a suonare alle otto e mezza. Solo gente che usciva dallo sterrato dove la prima sera i due deejay avevano suonato fino quasi alla mezzanotte. Così noi italiani abbiamo rinculato verso il Motorsport Lounge, non senza aver dovuto allungare di parecchio perché i poliziotti gestivano l’incastro delle strade d’accesso secondo una logica tutta loro, visto che uno di noi non era riuscito a cenare ed eccezionalmente il buffet avrebbe riaperto alla mezza. Abbiamo conquistato un posto sulle poltrone davanti alla vetrata panoramica sul rettilineo e preso qualche birra. Dietro, qualcuno, delle donne con dei bambini, si apprestava a passare la notte da sveglio, in realtà avevano tutti già gli occhi semichiusi e le bocche mezzo spalancate nel sonno, i bimbi lunghi distesi sui divani ignari del rombo dei motori a venti metri sotto di noi, dove i fari disegnavano le traiettorie delle auto come astronavi nel buio. Ogni tanto arrivava qualche notizia incerta dopo i primi scrosci di pioggia: Valentino è in pista, Kubica ha mandato a muro una BMW in un tentativo di sorpasso, la Cadillac tocca le barriere ma torna in pista, all’Alpine cede il motore mentre Porsche e Ferrari continuano a duellare…
Penso a quando Christian Bale dice che “i giri sono i tuoi amici” e quando scali in terza devi aumentare i giri, portarli al massimo e lasciare che la macchina corra libera… e non riesco a non vederci una certa qual similarità con la scrittura, quando digiti per un magazine, quando devi necessariamente scalare per una vecchia consuetudine giornalistica che impone di abbassare il livello, ecco, in quel momento se vuoi lasciare un segno devi aumentare i giri, non necessariamente scrivere come faresti libero da condizionamenti, ma scalare lasciando comunque una traccia, sia la striscia dello pneumatico in frenata sull’asfalto sia la grip alla chicane… Ora quello che conta per affrontare la notte è mantenere costante il tasso di birra, come la benza nel serbatoio, se ti lasci andare è un attimo consegnarsi alla stanchezza.
Faccio un giro nel pub dove in molti hanno girato definitivamente le spalle alla pista: birra sempre, al bancone, mentre si fuma, in una mano mentre con l’altra si disegnano piccole chicane nell’aria, si improvvisano passi di danza al ritmo del deejay che pare mixare la techno con l’urlo dei motori sul rettilineo, poco più in là, lontanissimo, oltre il paddock. Prendiamo un’auto di cortesia e il driver ci porta a una curva Porsche. Mentre ci inoltriamo fiancheggiando il circuito in senso contrario c’è una fila interminabile di macchine. E la domanda è: si staranno muovendo, come spesso accade, tutti e nello stesso momento, per andare a dormire o semplicemente si spostano verso un altro punto di osservazione? In ogni caso, decidessimo di averne abbastanza, dovremmo già mettere in conto un lungo e penoso rientro?
Troviamo una tensostruttura illuminata e un bar funzionante, con tavoli in legno e sdraio in alluminio chic tutte rivolte alla pista come sedute di una navata o di un cinema all’aperto e finalmente lo vediamo lo spettacolo son et lumière del circo automobilistico, nel silenzio sacrale degli spettatori: l’ipnotico susseguirsi dei motori, i fari spianati fino all’ingresso della chicane i dischi dei freni che bruciano di rosso vivo e poi il crepitare dei tubi di scappamento che lampeggiano, le auto come motoscafi tra scie di acqua, i pneumatici che scivolano via nella ghiaia prima di riprendere derapando l’asfalto, ma ancora più sorprendenti sono queste figure umane viste di spalle, intabarrate nei giacconi, i cappucci sopra i cappellini per il freddo, che resistono al sonno per guardare passare effimere farfalle ebbre di luce che, da dentro l’abitacolo, per un istante fuggevole, l’occhio da piloti sempre alla pista, restituiscono uno sguardo di rapidissima gratitudine a chi condivide da fermo questa follia.
La notte piove sempre. Verso le 3 abbiamo deciso di rientrare al campo base. Il team di Valentino è fuori dai giochi, avendo il suo compagno di squadra perso il controllo dell’auto nei pressi del mezzo pneumatico Dunlop, cozzato col frontale e finito la corsa nella sabbia: “I lost the car” urlava battendo i pugni sul volante mentre la telecamera inquadrava l’auto col 46 luminoso sulla fiancata ormai ferma come una falena sotto la pioggia, le ali irrimediabilmente bagnate, i fari come ommatidi attoniti contro le barriere di protezione.
Le gocce battono ritmiche contro la struttura della cabina letto. Dalla fessura che lascio aperta si vedono lampi improvvisi, tuona e non sono i motori delle auto che passano in fila indiana, a cadenza regolare, ora che sono tutti dietro – per motivi di sicurezza, dicono da radio corsa – alla safety car. Infilo felpa e scarpe, prendo l’ombrello di cortesia e vado fino al terrapieno per vedere se c’è ancora qualcuno, accampato sotto gli ombrelli a guardare la notte, la pioggia, le luci. Qualcuno insonne o sfegatato al punto da scambiare la pista per un orologio, fissare l’asfalto nell’attesa regolare del trenino di auto che scandisce le ore, in un’attesa che non è quella dell’alba, piuttosto di un presagio, di un’illuminazione, così a lungo da desiderare che il momento non arrivi più, che si possa godere semplicemente dell’attesa. Poi, eccolo di nuovo il millepiedi di luci che scavalla l’orizzonte, un rumore sordo che si combina tra motori differenti, che prende la forma della chicane prima di sparire ancora una volta nel buio.
La mattina è uscito il sole. Faccio la borsa da lasciare alla tenda lodge da dove la porteranno direttamente all’aeroporto e dove i giapponesi sono già pronti in attesa del driver per tornare al paddock con la golf car, i trolley fighi in alluminio ricoperti con ordinati sticker di auto da corsa. Bevo due caffè con un Kit Kat e torno su alle recinzioni, nel flusso dei primi che arrampicano con la sdraio sotto l’ascella come fosse una baguette, in ordine sparso, chi con le cuffie chi con l’impermeabile chi con la giacca a vento chi in maglietta, il berretto, le Nike immacolate, lo zainetto sulle spalle. A gruppetti, in coppia, padre e figlio… molti i solitari: aprono la sedia pieghevole, aspettano le auto.
Più tardi abbiamo in programma un giro in uno dei box del paddock. Ci mettono delle cuffie collegate a dei trasmettitori, come ai gruppi dei turisti che seguono le guide. Ci viene detto di camminare sempre lungo le pareti per non intralciare i lavori in corso e di non fotografare i monitor. Abbiamo la fortuna d’essere nel retro del box proprio nel momento in cui rientra una vettura per il rifornimento. Quella che sembra essere il capo dei meccanici è una donna con mèches biondo cenere inguainata in una tuta argento con inserti rossi a sottolineare le curve del corpo. Addosso la tecnologia che la renderebbe sexy agli occhi di un Ballard: il filo che dalle cuffie tra i capelli le scende sul seno fino alla ricetrasmittente sull’anca che sporge, le mani sui fianchi, come fosse Deborah Unger mentre scopre quanto sia simile l’attrazione tra i corpi alla meccanica di un incidente. Gli addetti al rifornimento allora – i caschi, gli occhiali, le tute ignifughe, le scarpe a collo alto – sembrano tutti ballerini di una coreografia dove ognuno ha il suo posto e un compito assegnato: chi regge il cartello di stop, chi apre il bocchettone, chi infila il tubo, chi regge l’estintore, chi pulisce il vetro… lei la mistress che – cronometro luccicante al polso – tira le fila del destino di tutti mentre al nostro sguardo osceno di transeunti visitatori è lasciato il tempo minimo per una necessaria fantasia a occhi aperti, con l’odore della benzina che sfuma. L’auto riparte di scatto, un centauro metà uomo metà meccanica, testa e computer, cuore e motore, polmoni e prese d’aria, pensiero e algoritmo: il necessario essere ibrido che viene dal futuro.
Piove ancora. Sul trespolo del Motorsport Lounge, mentre sugli schermi passano con la mattina le immagini della corsa e dalle vetrate, nascoste da qua, sfrecciano le auto sotto di noi, sbozzo il pezzo che devo scrivere per il magazine sorseggiando una birra al gusto di limone. Ogni tanto vado ad annusare l’aria fuori. La tipa non binaria all’ingresso con lo scalpo rasato sulle tempie e la tuta nera da parà e il mitra a tracolla finge bene di non essere annoiata, completamente immedesimata nel suo ambito ruolo di addetta alla sicurezza. Non so bene perché ogni volta che rientro le mostro i braccialetti. Accenna un sorriso – è questa la ragione – come a dire che non è il suo mestiere, per quello ci sono le ragazze al desk, intente a trovare un loro personale senso allo scazzo di giornata. Goccia meno e allora faccio avanti e indietro su questa sorta di vasca, con gli stand accatastati come a una fiera di paese sulla traiettoria principale che conduce oltre un incrocio trafficato verso la periferia del circuito. Ci sono altre auto in mostra, la Lamborghini delle Iron Dames con la livrea disegnata dai bambini di Le Mans, ma anche tutto l’indotto della componentistica (pneumatici, freni, carrelli, detergenti…), e poi occhiali, acquarelli artistici, acrilico su plexiglass, linee di abbigliamento ispirate a Steve McQueen, sedie artigianali a forma di casco da pilota, mini caschi da collezione dei piloti preferiti, estintori decorati… da uno stand escono di corsa due ragazzine con delle t-shirt bianche brandizzate reggendo delle sedie. Ci salgono sopra e subito si forma un capannello ai loro piedi mentre la gente comincia a studiare la traiettoria di lancio per arrivare prima ad accaparrarsene una. Sui display le auto in pista continuano a girare.
Quando sembra che potrebbe durare in eterno, la 24H di Le Mans, e pure noi da spettatori si potrebbe girare per sempre sugli stessi quattro pensieri, come paraboliche attorno alle quali in precaria forza centrifuga ci convinciamo d’essere vivi senza nemmeno la scusa d’essere qui, nel mondo cosiddetto reale dico, per una qualche ragione fosse anche solo quella di arrivare a una sorta di traguardo che non fosse quello definitivo, ecco che la corsa finisce e l’ultimo giro è solo una sorta di quieta parata, un giro d’onore con le auto che rallentano, i piloti salutano, la folla applaude, i commissari sventolano le bandiere. Dalla terrazza del Motorsport Lounge sotto una pioggerellina ormai nemmeno più fastidiosa si intravede, lontana, la bandierina a scacchi. Poi si corre giù, verso il paddock, si sfodera di nuovo il bracciale per l’addetta in fondo al pertugio che poi conduce ai box, lei con l’aria di chi ha già smontato da un pezzo e con la testa è già altrove, forse ripassa la strada più veloce per tornare a casa, da un ragazzo, ai suoi gatti, a maledire la 24H, Le Mans, la gente e poi tornare qui tra un anno, ancora, a fare lo stesso lavoro… e siamo sul muretto mentre sfreccia oltre le decine di teste che si sporgono, i telefoni in mano per immortalare il video per tutti uguale, la macchina vincitrice: un meccanico seduto sulla scocca con la bandiera a scacchi, un soffio di vento ed è già passato.
Ci ritroviamo nel paddock e prima di pensare a come fare a raggiungere l’aeroporto, mentre le tribune già si svuotano e chi non scavalca per la rituale invasione è ormai in pista per uscire, con un aereo che parte tra mezz’ora, ecco che ci indicano un tunnel che passando sotto il rettifilo ci vomita d’incanto fuori dal circuito, là dove un minivan c’imbarca al volo e siamo sulla strada per l’aeroporto, mentre fuori la folla è in marcia gonfia di birra e sonno arretrato per raggiungere le auto, i tram, i camper, andare via. Sembra un esercito di zombie che ripara da una battaglia, le aste delle bandiere, le sedie sotto braccio, le cuffie al collo, gli ombrelli, l’ultimo bicchiere di plastica mezzo pieno di birra annacquata e calda in mano, scalpitando nel fango, le orecchie piene di rumore. A passo svelto ma strascicato per guadagnare posizioni, arrivare prima, trovare a casa qualcuno a cui raccontare della 24h di Le Mans.
Tutte le foto sono di Gabriele Nava e sono scattate con uno smartphone Honor 200. Il suo video, qui