Bisogna andare a Venezia per vedere April di Dea K’ulumbegashvili. Vi faccio, adagio, lo spelling? Ecco: ho incontrato altri nomi difficili nella mia esistenza di umile cinefilo – per esempio, pochi competono con Apichatpong Weerasethakul – ma questo della regista georgiana l’ho memorizzato appena ho visto Beginning, il suo primo lungometraggio.
C’era uno stupro raccontato sullo schermo ed è stato come guardare al microscopio di uno scienziato crudele mentre il film diventa, all’indomani di un oscuro attentato politico religioso, una sorta di poliziesco etico… Che dire? La magia di Dea K’ulumbegashvili sta in incredibili long take iper statici, roba così… E adesso, con April, si annuncia la promettente storia di un’ostetrica – Ia Sukhitashvili, chi altri?, l’attrice feticcio di K’ulumbegashvili – che lavora in un ospedale georgiano e pratica aborti…
Ha dichiarato K’ulumbegashvili: “With April, my goal was to explore and analyze the dichotomy and convergence between existence and womanhood. This naturally led me to the themes of birth and death…”.
Detto questo, mi sembra che, nei titoli in concorso – parlo solo del concorso -, meritino subito un occhio, per applausi o ripulsa, anche i 215 minuti di The Brutalist, dedicati a László Tóth, sopravvissuto all’Olocausto che cerca nuova vita in USA, e non solo perché sono in 70mm. Il regista (più noto come attore?) Brady Corbet aveva girato in celluloide anche la sua cover sartriana di Infanzia di un capo e quel ricco pasticcio di Vox Lux. “It just seemed like the best way to access that period was to shoot on something that was engineered in that same decade”, ha detto a Variety. Al buio, faccio il tifo anche per lui.
Non escludo che si debba checkare, oltre al venerando Pedro Almodóvar – La stanza accanto, primo film in inglese, con Tilda Swinton e Julianne Moore, da Sigrid Nunez – Pablo Larraín che rischia l’osso del collo proseguendo nella sua serie di ritratti femminili con Maria (dopo Jackie e Spencer). Maria, che non è la Vergine, ma la divina Callas, pure lei scritta e griffata da Steven Knight, è raffigurata infelice e morente nella Parigi degli anni Settanta. Ma chi interpreta la Callas di Larraín? Risposta: Angelina Jolie, e così siamo certamente già salpati per un biopic sospeso tra Kitsch e Camp.
Tra parentesi: il lato Camp della Mostra avrà giocoforza il suo candidato in gara nel Luca Guadagnino di Queer: passato in carriera dal simil Visconti di Io sono l’amore al romantico horror di Bones and All (Leone d’Argento), il poliedrico regista approda adesso alle pagine più famose, una volta tradotte in italiano sotto il titolo Checca, del vecchio beat William S. Burroughs. Girato interamente nel Messico immaginifico di Cinecittà, sarà forse un film vivo e patibolare, un melodrammatico necrologio alla Guadagnino/Antonelli per certi tempi andati?
Intanto. Si aspettano conferme assortite e qualche bis. Conferme e messe a punto di discorsi – seguire i propri percorsi nel cinema più o meno d’autore può ancora accadere al di là della firma sul titolo singolo o sulla serie che fa il botto – coinvolgono affermati registi sulla cinquantina (è la classe media per il Leone?) come Dag Johan Haugerud (con la Seconda parte della trilogia Sex Dreams Love), Emmanuel Mouret (Trois amies) o Athina Rachel Tsangari – presenta l’interessante Harvest ispirato dallo scrittore americano Jim Crace, ma ho appena rivisto su MUBI Attenberg e non mi ha fatto più nessuna impressione – e ci sono anche solide coppie, tipo Delphine e Muriel Coulin (Jouer avec le feu) oppure, ma loro sono più giovani, Zoran e Ludovic Boukherma (Leurs enfants après eux, dal romanzo di Nicolas Matthieu, che dà un occhio alla “Francia di mezzo”).
Credo che arriverà qualcosa di buono dal Far Est: da Wang Bing con Youth: Homecoming – è il terzo film docu della trilogia sulla Cina operaia: l’azione si svolge alla chiusura di capodanno dei laboratori tessili Zhili, chissà che festa… Oppure dal regista di Singapore Yeo Siew Hua: Strangers Eyes potrebbe connettersi per lo sguardo duro a A Land Imagined (2018), storia di detective insonni, caporalato e follia.
Il compito di fare il bis, a parte il doppio Spiritello del redivivo Tim Burton in apertura e fuori gara, spetta al Joker: Folie à Deux, già trasgressore degli steccati leonini tra film d’autore e super pasticcio di genere imperniato su egotico e disperato villain. Ma di questo pare molto esagerato Todd Phillips, come degli italiani, da Amelio in giù e in su, parlerò solo con cognizione di causa.
A margine. Alla mostra di Venezia si può andare anche per timbrare il cartellino e aiutare il commercio della seconda parte della saga western (quindi in apparenza inattuale) Horizon, di e con Kevin Costner – ovviamente lo stagionato ma gagliardo divo è fuori concorso. Mi è piaciuto il guanto di sfida lanciato da Costner alle serie tv, avendo lui progettato, al contrario, un film seriale che dovrebbe – se ci sono i dollari – durare 12 ore divise in quattro tranche. Dovrebbe, per ora ce ne sono solo due. Se Costner si reca umilmente con lo Stetson in mano a Venezia, altro non è che per rilanciare in Europa un progetto già punito forse per ubris zeon al patrio botteghino.
Nella foto in apertura, un fotogramma di April. Per info, sulla mostra, qui