Vivement dimanche (Finalmente domenica, 1983) è l’ultimo film di François Truffaut. Un destino bastardo, sotto forma di tumore al cervello, lo uccide l’anno dopo, in ottobre, proprio mentre amava tantissimo Fanny Ardant, e da lei aveva appena avuto una bimba, Joséphine. Con un noir allegro, una scena finale lieve come una bolla di sapone, inno al gioco, sempre e comunque, Truffaut ci ha detto, ma non lo sapeva, il suo adieu.
Rivedere questo film significa sentirsi terribilmente vecchi rispetto all’epoca contemporanea. Amato più e più volte, nei ricordi di chi tiene accesa la fiaccola del culto del regista francese – eccomi, sono tra loro, confesso subito – resta il più delizioso degli omaggi ai noir americani, girato in bianco e nero, per essere più fedele al genere. A proposito, li hanno battezzati noir proprio in Francia, e quelli che Truffaut aveva in mente somigliavano a The Big Sleep di Howard Hawks (Il grande sonno, 1946): contenevano un tocco di commedia, Humphrey Bogart e Lauren Bacall a battibeccare e amarsi come loro nessuno mai. Con una spruzzata di Hitchcock, non va dimenticato che Truffaut era un suo grande ammiratore e gli ha persino dedicato un famosissimo libro-intervista, Il cinema secondo Hitchcock.
La trama vede una radiosa Fanny Ardant, all’epoca compagna del regista, nei panni di Barbara, segretaria in un’agenzia immobiliare. I titoli di testa, con la sua meravigliosa, gioiosa falcata verso l’ufficio, le gambe lunghe e magre che Truffaut prediligeva (“Le gambe delle donne sono come compassi che misurano il globo terrestre in tutte le direzioni, donandogli il suo equilibrio e la sua armonia”, L’uomo che amava le donne) valgono il film e sono una resa totale all’amour fou per la sua attrice. Barbara, che è divorziata da un paparazzo e recita in una filodrammatica amatoriale, è segretamente innamorata del suo principale, Julien Vercel (Jean-Louis Trintignant), sposato con Marie-Christine, che di lei è l’opposto: bionda platino, pelliccia di leopardo, oscura quanto Barbara è limpida, chiara.
Julien, invece, e qui casca l’asino, è un uomo tradizionale, uno di quei reperti che oggi finirebbero travolti dal furore della cultura woke. Veste come un gentiluomo di campagna e, ça va sans dire, guarda sempre le gambe delle donne. Va addirittura a caccia! Anzi, è proprio durante una battuta di caccia che s’imbatte nell’auto di un altro notabile locale, Massoulier, l’amante di sua moglie, che poi verrà trovato ucciso. Ha inizio una spirale di eventi che portano tutti a immaginare la colpevolezza di Julien. Tutti tranne Barbara, che per amore s’improvvisa detective e contro ogni logica, diciamolo pure, continua a credere nell’innocenza dell’amato.
Contro ogni logica è anche il suo innamoramento? Gary Arnold, critico senior del Washington Post, fu lapidario: “Le giovani ragazze francesi attraenti devono essere messe davvero male se le loro speranze passano da un uomo grigio, basso, più vecchio…”, sentenziava, parlando di noir insipido. Argh, ma cosa scriveva? Scriveva in anticipo qualcosa che sarebbe scritto e pensato anche oggi. Ebbene sì: oggi probabilmente Vivement dimanche sarebbe processato pubblicamente, e gli indizi, proprio come in un noir o in un giallo che dir si voglia, sono più di tre, quindi siamo di fronte a un’amara certezza, non a un’ipotesi azzardata.
Innumerevoli sono i dialoghi a base di: «Stia zitta! Lei è una stupida!», che Julien riserva alla segretaria, che peraltro, all’inizio del film, intenderebbe persino licenziare sui due piedi, solo perché lei ha osato tenergli testa verbalmente.
Clément (Philippe Laudenbach) l’avvocato di Julien, si frega le mani all’idea di poter andare in aula a difendere un potenziale delitto d’onore, giacché in Francia, parola sua, i tribunali sono assai teneri con questo tipo di reato (ah, signora mia, i paesi latini, così caldi e passionali!).
Il commissario Santelli, a proposito di chi infila le mani nel reggiseno di una donna, se ne esce serafico, alludendo a un collaboratore: «Non tutti quelli che mettono le mani addosso a una ragazza sono degli omicidi, sennò lui sarebbe in prigione già da tempo».
Insomma, il film è intriso di elementi che oggi sarebbero considerati inaccettabili, si attirerebbero critiche assai più dure di quelle del Washington Post.
Ma noi siamo qui per tenere accesa la fiaccola, vi avevamo avvertiti. Siamo innamorati di Truffaut, come Barbara di Julien, e il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Dunque ecco la difesa, che passa proprio per le parole della musa e amata dal regista, Fanny Ardant: «Ci diamo un gran daffare per comportarci come animali sociali, è tutto un conformarsi alla società, la famiglia, la patria. Ma quando uno è innamorato pazzo non ha né il desiderio né l’energia di obbedire alla legge, non gliene importa più niente», ha detto, complice ideale del suo uomo, che in ogni film ci ha bisbigliato all’orecchio questo principio. Basti ricordare l’altro a pellicola di Truffaut che vede protagonista Ardant, La femme d’à côté (La signora della porta accanto, 1981), dove gli amanti non esitano a distruggere tutte le fragili certezze che si erano costruiti, a uscire dalla loro comfort zone abitativa e famigliare pur di vivere il loro amore e la loro passione. Lì però li aspetta l’abisso. Qui, invece, un’ironia lieve, fatta anche e volutamente d’improbabilità, mette in una bolla assolutoria Barbara e Julien. Lui è sì un maschio d’altri tempi, ma lei vede molto bene la sua fragilità, la tenerezza, la resa.
È quasi come se Truffaut affidasse alla fisicità di Ardant un manifesto con sopra scritto: “Non c’è pericolo, questa donna non si farà mai sottomettere”. A occhioni così enormi non sfugge nulla, a gambe così svelte non la si fa, una bocca sensuale come la sua sa sorridere anche dell’amato che guarda le gambe delle altre, ed ecco che anziché indignarsi, lo provocherà anche lei, passeggiando volutamente davanti alla finestrella della cantina dove lui si è nascosto, in una citazione de L’uomo che amava le donne.
In tutto il film ci sono riferimenti all’eterno dualismo bionda-mora. C’erano anche in La femme d’à côté , con la signora Jouve, testimone della cronaca dei poveri amanti, che carezzava “i bei capelli neri” di Ardant. Ardant-Barbara che qui accusa Julien di non avere occhi che per le bionde platino con ciglia finte e di non essersi mai accorto di lei come donna. Lui per tutta risposta la bacia, e faranno l’amore sulla scrivania (il capo e la segretaria, signora mia, orrore!). E quando Barbara si traveste da prostituta, il macrò, insomma il pappone, la caccia via in malo modo: «Sloggia, oltretutto sei una mora, le more non mi rendono!».
La mora Fanny Ardant, insomma, disegnata dalla natura in maniera che non si possa mai crederla vittima, recita lei, in impermeabile, l’Humphrey Bogart della situazione, e assolve Truffaut da qualunque accusa di maschilismo, visto che Trintignant, invece, se ne resta per tutto il film nascosto e inerme. Con ogni probabilità, comanderà sempre Barbara, ci dice anche l’allegro finale. «Non ho mai fatto parte della società degli uomini, tutto quello che ho fatto è per le donne», farà dire Truffaut, e parlava di sè, al colpevole. «Le donne sono magiche, e allora anch’io sono diventato un mago».
Nella foto in apertura, e qui sopra, il regista e la sua musa