Non so da dove è saltata fuori, tra i miei libri, una raccolta di racconti di Tobias Wolff, Back in the World, 1985, autografata con una grafia elegante e decisa, come se le lettere fossero dei sottili e ripidi tagli d’inchiostro sul frontespizio…
Sono ritornato così a seguire le tracce di Wolff, classe 1945, che speravo di vedere al Festival di Mantova (ha dato buca ma assicurato la sua presenza per il 2025), passando dai racconti a un romanzo memoir che sopravviverà a lui e a tutte le guerre – e che mi immagino sia stato scritto in caratteri simili a quelli della sua firma. Nell’esercito del faraone. Ricordi della guerra perduta (Einaudi 1996, due anni dopo l’uscita USA) è un ampio resoconto sullo scontro in Vietnam, tagliato in episodi vividi e in riflessioni mai scontate, memoir attualissimo oggi in cui si conducono le guerre in un altro modo, più impersonale e persino più spietato.
Già allora, però, il tenente Wolff (lui solo o molti soldati?) prende atto di trovarsi in una posizione di alienazione estrema: è costantemente frustrato, estraneo alla fantasmatica battaglia, impossibilitato a combattere anche se lo volesse – e lui si è arruolato volontario -, tanto che finisce per passare agli occhi di colleghi e (infidi) alleati per un paraculo imboscato o per sentirsi un assassino comune quando difende, sventrandolo di bombe e lasciando crepare i civili, il villaggio in cui era finito confinato ad aspettare i tartari, pardon i Vietcong… L’odore del sangue è l’imprevedibile, l’atroce dettaglio fisico che non si conosce, l’orrore materializzato che scava il solco tra un prima e un dopo.
Ho sbagliato a scrivere troppo la parola memoir perché il libro di Wolff è costruito come una serie di racconti – potrebbero essere stampati ognuno a sé sul New Yorker per la completezza dell’azione (e del senso narrativo) – ma ha l’autorevolezza di un saggio per l’esistenza di un sotterraneo discorso in progress, di continuo ritoccato e approfondito.
Si parte da un ragazzo nato in Alabama, senz’arte né parte, che sceglie quasi passivamente l’esercito per cercarsi un’identità, seguire un blando sogno letterario o più semplicemente sfuggire al niente di una vita, si direbbe oggi, da white trash: white trash che compare davvero (hillbillies tradotti in “bifolchi”) in una rissa da bordello in un Vietnam ormai devastato, durante una notte dove si sprigiona violenza primordiale e gratuita tra gli uomini e, insieme, solidarietà animale tra commilitoni.
Il ragazzo Tobias Wolff fugge a lungo da sé, arruolato nell’esercito del faraone, dove significativamente non diventerà mai capitano – è un esercito all’apparenza maestoso ma che si rivela miserabile al primo contatto con la realtà – per giungere a una pensosa maturità che non accetta nessuna delle parole retoriche della guerra e della società dell’oppressione.
Le pagine più belle dello scacco del tenente Wolff, di una vita assediata dalla imminenza della morte, si aprono nel finale, tra pubblico e privato, quando si ricongiungono un padre e un figlio entrambi a loro modo indegni – il padre truffatore matricolato appena uscito di prigione e il figlio che passa per eroe e cercherà però un riscatto nella scrittura. Non per niente, si richiama un altro celebre memoir dello scrittore, che racconta la sua infanzia in This Boy’s Life, 1989 (tradotto dapprima come Memorie di un impostore, Mondadori 1990, e poi come Un vero bugiardo. Vita di un ragazzo nell’America degli anni ’50, Einaudi 2003 – il che denota lo scarso e spiazzato interesse per Wolff dalle nostre parti).
Comunque. Si chiude un cerchio: è la scrittura saggistica e giornalistica, elegante e letteraria, sorvegliata e precisa, che permette a Tobias Wolff di farci entrare a Saigon prima dei Vietcong, ed è la scrittura il miglior modo per ribaltare tutti i luoghi comuni in guerra e in pace. Qui si accusa la generazione ipocrita dei padri non per aver aiutato qualche figlio privilegiato a disertare ma per aver spinto gli altri figli a un massacro annunciato e infine incredibilmente inutile…
Una curiosità. Nell’esercito del faraone esce a bocce ferme, per la prima volta, nel 1994. Segno che è un testo maturo, completato a una notevole distanza di tempo dagli eventi narrati. Sono molto anteriori e decisamente più calde le pagine di altri famosi scrittori di Vietnam, primo fra tutti il Tim O’Brien di The Things We Carried. Nell’esercito del faraone è anche curiosamente posteriore a uno dei primi grandi film che hanno parlato della “spazzatura bianca” degli Appalachi e, insieme, della guerriglia vietnamita, Il cacciatore di Michael Cimino, che data 1978. Protagonista della pellicola, Robert De Niro che, guarda caso, interpreta il papà di Toby nell’adattamento cinematografico di This Boy’s Life, uscito al cinema da noi nel 1993 come Voglia di ricominciare (ancora un titolo diverso!). Toby, prima di essere calvo e coi baffoni oggi bianchi fatti crescere in Vietnam, è un bellissimo ed espressivo giovane DiCaprio.
Ho letto Nell’esercito del faraone. Ricordi della guerra perduta nella buona traduzione di Susanna Basso. Nella foto in apertura, Wolff qualche tempo fa a un firmacopie (Credit: Tobias Wolff and OETA” di Pioneer Library System con licenza CC BY-NC-ND 2.0.).