Quattro uzbeki di religione musulmana sono morti nel parmense durante la Resistenza. Cosa ci facevano quei quattro giovani sulle nostre colline? Come erano arrivati fin qui dalle steppe dell’Asia centrale? È una storia che merita di essere raccontata.
Erano stati fatti prigionieri dalla Wehrmacht durante l’Operazione Barbarossa, ossia l’invasione dell’Unione Sovietica da parte delle truppe naziste. Con il procedere degli scontri, mentre cresceva la consapevolezza che il conflitto non sarebbe stato così breve, come avevano previsto Hitler e gli alti comandi dell’esercito, la Germania decise di utilizzare parte di quei prigionieri come truppe di complemento per altri fronti e così i nostri uzbeki – insieme a molti altri – furono inquadrati nell’esercito tedesco e destinati all’Italia, dopo che il nostro governo aveva firmato l’armistizio di Cassibile. Nonostante queste truppe servissero al Reich, erano trattate con una sprezzante superiorità ariana e spesso destinate o a lavori defatiganti o alle prime linee degli scontri: vera carne da macello. Anche per questo, e per l’ostilità che l’occupazione tedesca aveva suscitato in quegli anni fino alle più remote regioni dell’Asia, i quattro uzbeki ben presto disertarono e decisero di unirsi, insieme ad altri fuggiaschi, alla bande dei partigiani che si stavano costituendo in montagna qui nella provincia di Parma.
Verosimilmente avevano una ben scarsa consapevolezza di quello che stava succedendo intorno a loro, di dove si trovavano e di cosa stavano facendo, ma hanno combattuto e sono morti combattendo, per noi, per la nostra libertà, mentre lottavano, con in cuore la speranza di fare finalmente ritorno nella loro terra, dalle loro famiglie. È giusto ricordare anche loro, onorarli insieme ai “nostri” caduti. Anche se i loro visi avevano fattezze orientali – mongole probabilmente – e la loro religione è quella che adesso viene presentata come nemica della nostra civiltà.
L’anonimo partigiano che a volte vediamo ritratto nelle statue – spesso piuttosto brutte – che stanno al centro delle nostre città è sempre un maschio di razza caucasica. La prossima volta che ci passiamo accanto, cambiamo prospettiva, proviamo a immaginarlo con gli occhi a mandorla. Oppure come una donna. Ci farà bene.
Spesso ce ne dimentichiamo – perché la nostra prospettiva è sempre troppo parziale e limitata – ma quella guerra fu davvero mondiale, perché coinvolse donne e uomini di tutto il mondo. A Forlì c’è il cimitero dei soldati indu e sikh che combatterono nell’esercito inglese e il cui sacrificio fu determinante per lo sfondamento della Linea gotica. Quindi i tantissimi sikh che vivono nella nostra regione e allevano, con competenza e passione, le mucche da cui viene l’italianissimo parmigiano-reggiano non sono stati i primi a venire qui, ma i nipoti di quei soldati, che si ritrovarono catapultati dall’altra parte del mondo, strappati dalle loro case in India, per venire a combattere al fianco dei nostri nonni.
E potremmo citare tanti altri casi. Ricordo, ad esempio, che a Vergato, poco distante da Marzabotto – luogo caro alla nostra memoria – c’è un monumento che ricorda i soldati brasiliani caduti nel conflitto, a fianco degli Alleati. Eppure per noi i soldati hanno sempre la pelle bianca o al massimo sono neri degli Stati Uniti, come quello che mise incinta la ragazza di Napoli protagonista, insieme al suo bambino niro niro, di quel bellissimo canto popolare che è Tammuriata nera. Invece ci furono anche tanti di quelli che ora chiamiamo, con una qualche ipocrisia, extracomunitari. E che allora erano considerati appartenenti a razze inferiori. Allora naturalmente, perché oggi noi “uomini bianchi” siamo molto più evoluti e non crediamo più a queste cose; almeno spero.
E, allo stesso modo, anche la Grande guerra fu davvero mondiale, combattuta da soldati provenienti da ogni angolo della terra. Nella battaglia della Somme morirono soldati algerini, indiani, indocinesi, congolesi, caraibici, arruolati dalle potenze europee che in quel tempo dominavano praticamente tutte le terre conosciute. E quella guerra – anche se spesso lo dimentichiamo e neppure lo studiamo – fu combattuta, forse con ancora più violenza e più brutalità, in Africa, per il controllo delle colonie tedesche in quel continente. E nelle colonie i conflitti erano condotti dai soldati di quei paesi, guidati da ufficiali europei che li mandavano a combattere male armati e con equipaggiamenti inadeguati, dimostrando verso le “loro” truppe un disprezzo che non era solo di classe – come quello dei generali europei verso i soldati dei loro paesi – ma anche apertamente razzista. Sono centinaia di migliaia i caduti “stranieri” della prima guerra mondiale e forse il milite ignoto è nero.
Di questo non parliamo mai, figurarsi poi nelle occasioni ufficiali, quando celebriamo, in genere in maniera piuttosto retorica, questo o quell’anniversario. Eppure sarebbe molto utile farlo per capire da dove arriviamo. E dove, forse, arriveremo. Perché la storia va studiata anche quando ci dà fastidio, anche quando racconta verità che preferiremmo sottacere, anche quando mette in crisi le nostre certezze, i nostri giudizi e soprattutto i nostri pregiudizi.
Per questo dovremmo imparare a cambiare prospettiva, anche correndo il rischio di cui ci parla Eugenio Montale: le cose sono fatti e i fatti / in prospettiva sono appena cenere.
- Luca Billi ha pubblicato il romanzo Anything Goes (Villaggio Maori Edizioni). Anything Goes è anche uno spettacolo teatrale. Per tenersi informati, qui