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Sorrentino racconta Parthenope in una Napoli bellissima e condannata

Anna bello sguardo, sguardo che ogni giorno perde qualcosa, cantava Lucio Dalla. Anche a Parthenope (Celeste Dalla Porta), la bellissima protagonista dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, tocca in sorte come a tutti la scure del tempo, che impietosa ti ruba la luccicanza e in cambio ti dà solo la visione di quel che da giovani non si vede: che ogni illusione finisce. “Come è enorme la vita, ci si perde dappertutto”, recita la citazione di Céline che apre il film.

Seguiamo il destino di Parthenope fin dalla nascita, in senso letterale: partorita nel 1950 nel mare davanti a Palazzo Donn’Anna, quasi ad avvisarci che sarà la malinconia alla Raffaele La Capria a farla da padrona, battezzata da Achille Lauro (Alfonso Santagata), datore di lavoro del padre (Lorenzo Gleijeses), Parthenope, proprio come Napoli, gioca da subito con la sua seduttività e ogni uomo che incontra ne è rapito, fratello maggiore compreso (Daniele Rienzo). Osserva adorante le sue imprese da sirena sfuggente, Sandrino (Dario Aita), eternamente innamorato di lei.

Celeste Dalla Porta (Photo © Hollywood Authentic-Greg Williams)

1968, 1972, 1973… assistiamo allo scorrere degli anni, la protagonista invecchia (alla fine, sarà Stefania Sandrelli) ma i fatti sociali e politici poco importano a Parthenope e a Sorrentino, che non sarebbe devoto cultore di Fellini non fosse più interessato al sogno, che alla realtà.

Parthenope studia Antropologia, che altro potrebbe fare? La coerenza del regista è totale, lui che con occhio curioso e generoso ama regalarci tutti i caratteri di Teofrasto, in ogni film. Da applauso, la sfilata di Napoli all’arrivo della primavera, ragazze e ragazzi belli, gambe, toraci, braccia nude, ad annusarsi, guatarsi, in piazza Plebiscito o davanti alla Galleria Umberto.

All’università, la ragazza incontra un padre putativo, il professor Marotta (Silvio Orlando), unico, insieme a un fugace John Cheever (Gary Oldman), sì, proprio lui, lo scrittore, a coglierne la solitudine interiore, le sue domande, oltre che le sagaci risposte.

Ma ci sono anche un ricco pretendente in elicottero, un mafioso che la incanta, una divertente versione trash di Sophia Loren (Luisa Ranieri), un “monstrum” segreto il cui “ciao” vale come benedizione. E il cardinal Tesorone del miracolo di San Gennaro (Beppe Lanzetta), che merita una citazione a parte, immenso nella sua sfacciataggine («Stai attenta, è il Diavolo», avverte il professor Marotta), l’eterno commediante napoletano, lampi di genio e disincanto, intelligenza, amoralità, ironia.

Sorrentino resta a Napoli, e fa bene ad andare fino in fondo, dopo È stata la mano di Dio. Sia Parthenope che la città sono di una bellezza abbacinante, persino troppo, tanto da indurlo in tentazione, rischiare di farsi mangiare il film dalla Dalla Porta, ma del resto, chi non correrebbe questo rischio, lei è davvero straordinaria.

Altro rischio è affidarsi a certi brani totemici della canzone italiana, Era già tutto previsto di Cocciante qui vale quanto Napul’è in È stata la mano di Dio, l’effetto mélo è dietro l’angolo, ma Sorrentino è un coraggioso, a lui servono, le usa.

Celeste Dalla Porta and Gary Oldman (Photo © Hollywood Authentic-Greg Williams)

La bellezza spalanca ogni porta, ma è commovente riflettere anche sul pondus che porta con sé: quanto può essere difficile, per una donna bella e intelligente, gestire la possibilità da vertigine di avere davanti a sé ogni possibilità? «Sei una furbacchiona!», le dice Lauro, e tutti i personaggi maschili o quasi non fanno che sottolineare quanto Parthenope abbia sempre la risposta pronta. Ma alla fine, potrebbe perdere persino la speranza evocata da un ormai pensionato professor Marotta: «Poter ridere ancora una volta per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro».

Parthenope non è perfetto, per scelta precisa: il caos, l’esagerazione, l’iperbole di immagini meravigliose sono l’assunto del film, che proprio questo ci vuol dire, che Napoli è un magma di infinite potenzialità, come scriveva Ermanno Rea in Mistero napoletano, scippate senza pietà da predatori esterni, ma boiccottate anche dagli stessi napoletani, viziati dalla sorte. Del resto, con quel mare davanti, chi non perderebbe la capa?

Sì, ogni tanto Sorrentino si disunisce, quando marchia esageratamente il territorio, come a voler sottolineare: «È una mia scena, è una mia frase-sentenza», e qui le frasi-sentenze sono forse un po’ troppe, nessuna efficace come: «La realtà è deludente» di Fabietto in E’ stata la mano di Dio, tanto che alla fine, per paradosso, quella che si ricorda di più è la geniale citazione da Billy Wilder del professor Marotta: «Per insegnare basta essere avanti di una sola lezione rispetto agli studenti».

Ma gli si vuol bene, a Sorrentino, si partecipa al suo dramma e a quello dei tanti che da una città così sensuale sono costretti ad allontanarsi per non esserne avviluppati, si torna a casa con le domande senza risposta di Parthenope, e le immagini belle non hanno mai una funzione puramente estetizzante come spesso nei Guadagnino, non potrai mai dire solo: «Però, come gira bene!», perché è proprio la sporcizia vera di certi volti sguaiati, l’insensatezza bellissima di un cocchio regale trasportato via mare, il quadro triste dei bassi, di unioni carnali davanti al pubblico guardone, di un corteo funebre che cita il funeralino de L’Oro di Napoli a farti sgranare gli occhi. Non è proprio questo il Cinema?

Nella foto in alto, Celeste Dalla Porta con Paolo Sorrentino (Photo © Hollywood Authentic-Greg Williams)

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