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Allonsanfàn
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Thomas Bernhard. Autobiografia dall’inferno

Che esista un’autobiografia di Thomas Bernhard, in cinque volumi, pare quasi una stranezza, un eccentrico sovrappiù, dato che non abbiamo mai messo in dubbio che Bernhard fosse, lui stesso, il professore pazzo di Gelo o l’erede sdegnoso e irridente della proprietà di Ungenach, tanto per citare due titoli a caso nella prima tranche della bibliografia dell’austriaco. Eppure esiste un Bernhard senza “contraffazione” né “falsificazione”, come afferma in un passo, versato alla pratica del memoir, della rivelazione apparente di sé e del suo percorso, pur se, quando pensiamo a un Bernhard maturo, persino tardo, saltiamo alla satira e agli estremi dileggi di A colpi d’ascia oppure di Antichi maestri.

Ma dunque. L’Autobiografia di Bernhard è uscita per la prima volta da noi in un solo tomo di circa 700 pagine nel 2011 con una foto quasi regale dell’autore in copertina e viene ripetuta oggi in economica con uno scatto più “alla mano” (Thomas Bernhard che gira in tondo in bicicletta, memore forse di un’avventura raccontata in Un bambino). Tale progetto aveva usufruito nelle prime edizioni italiane di un’intuizione di Roberto Calasso, che le aveva illustrate con un artista caro a casa Adelphi, già adoperato per il Simenon dei romans dur: Leon Spilliaert (1881-1946), pittore belga di campagne e spiagge del Nord, di atmosfere spoglie e cupe, cui manca in toto la sospensione metafisica. Scelta suggestiva e intonata visivamente anche per l’ultima caratteristica a questo Bernhard scarno ed essenziale, spietato e sincero fino all’osso, narrante la Salisburgo ottusa e vacua, città bottegaia da record di suicidi, che quasi travolge e soffoca il lettore all’apertura del primo capitolo, L’origine – insieme, Bernhard racconta la sua solitudine di metaforico carcerato, fatto salvo il rapporto con il nonno (“l’unico essere umano che io abbia amato veramente”), e la malattia polmonare che segna i suoi giorni di un senso così esplicito da servirgli a decifrare la vita (“il malato è un veggente”, gli dice il nonno ne Il respiro).

Scrive Bernhard di un bambino dalla famiglia irregolare, posto sulla strada che lo porta al penitenziario di collegio bottega ospedale sanatorio – Grafenhof e per una volta non Steinhof è il luogo dell’assenza di ogni speranza descritto ne Il freddo – strada in cui Bernhard apprende e non dimenticherà più i meccanismi del vivere sociale dove nazionalsocialismo e cattolicesimo si sono appena passati la staffetta, così come il Führer e Cristo, in un contesto miserabile e volgare, e quante volte compare nel testo la volgarità di carnefici e vittime – “…dove è appesa la croce si può ancora scorgere la macchia, bianchissima e vistosa sulla superficie grigia della parete, dove per anni era stato appeso il ritratto di Hitler”.

Chi rifa Bernhard e prova a copiarlo prendendo l’onda del furore nichilista – abbiamo letto tanti suoi imitatori in questi anni! – di solito non regge né al peso, anche estetico, della disperazione né al rigore dell’indagine. Mentre Thomas Bernhard, quello autentico, ha una soglia del dolore altissima che gli consente di guardare fisso nel vuoto e di mantenere pure, mentre scruta il nulla o l’orrore, un’imprevedibile eleganza – l’eleganza di Bernhard è l’antitesi alla volgarità del potere trasmesso da generazioni di servi idioti. Forse, capiamo qui, Bernhard ha preso a non distogliere lo sguardo, che significa poi non rimuovere l’evidenza della morte, quando a diciott’anni si trova in fin di vita in quella zona dell’ospedale provinciale che chiama “trapassatoio”, di cui narra accuratamente ne Il respiro i decessi gestiti con crudele indifferenza come in una naturale e macabra catena di montaggio.

Comunque. Si scorge, l’eleganza di Bernhard, in tutta l’Autobiografia, dove rinuncia spesso ai suoi trucchi da prestigiatore della prosa, al ritmo infernale e sarcastico delle ripetizioni, al loop di una costante e ironica maledizione – e, insieme, all’abituale forma di narrazione come referto di deliri altrui, cosa che nell’Autobiografia riserva soltanto a tratti agli insegnamenti impartitagli in ospedale dal saggio nonno – ma non fa mai a meno del luccicare abbagliante, in una colata di piombo senza a capo, della sua impareggiabile intelligenza delle cose e dell’irriducibile libertà della sua anima. “Condividi la tua condizione di detenuto con i tuoi compagni di carcere, ma non allearti mai con i sorveglianti” è non per caso la conclusione di una rozza (aggettivo suo) preghiera che Thomas Bernhard recita e ci invia direttamente dall’inferno di Grafenhof…

I cinque libri dell’Autobiografia, pubblicati fra il 1975 e il 1982 sono stati tradotti in italiano da Eugenio Bernardi (La cantina), Renata Colorni (Un bambino), Umberto Gandini (L’origine) e Anna Ruchat (Il respiro e Il freddo).

(credit: Thomas Bernhard ritratto da @Michael Horowitz, 1972)

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