Sarà possibile comprendere appieno la realtà di una serie tv, in un panorama sempre più ingombro di novità e season rinnovate al ritmo delle stagioni che fortunamente da un po’ escludono le mezze? Con Berkeley verrebbe da chiedersi se davvero le serie tv esistano (ma il discorso seguendo l’input del filosofo irlandese si estende a tutto il reale, digitale compreso, quando provocatoriamente, ponendo a principio il celebre “esse est percipi”, concludeva, spiccio, che no nulla esiste all’infuori della relazione per la quale ogni accadimento, e quindi in questo specifico ogni atto artistico, è filtrato dai nostri sensi), intendendo con questo che lascino traccia, al di fuori dei modi di produzione, delle regole di visualizzazione, della moda occasionale, del gigantesco blablabla che impone la dittatura analitica di Google: se vuoi esserci, nel web, devi parlare di ciò di cui tutti parlano, e quel qualcosa lo decidiamo noi, che sappiamo cosa volete voi che vi limitate a rilanciare illudendovi pure d’essere liberi nel mentre decidete di fruire, al modo che più vi illudete vi piaccia, dell’albero che abbiamo scelto noi.
Bene, se a quanto pare vige ora sul web il trend del guardare lo streaming seriale a velocità doppia o tripla, come se il problema fosse la velocità e non la fretta, pratica in realtà già disponibile da tempo e formalizzata e quindi incentivata dalle stesse piattaforme per ragioni commerciali: come vi pare purché si veda, possiamo ancora dire di averle viste, le serie tv, almeno nell’idea di chi le ha create, o ci dobbiamo rassegnare all’eterno consumo di chi guarda ma non vede nulla, e passa oltre bulimico placata la FOMO? O ancora, non è che l’oggetto filmico nel mentre vanta una connotazione ibrida nella quale non esiste più un oggetto originale da indagare ma piuttosto una metamorfosi dello stesso che si adatta alla personalità dello spettatore ricreandosi nel mentre si manifesta ci assolve dalla fatica del lavoro paziente e sapiente e brillante e sagace dell’analisi? L’albero che cade nella foresta, intesa come platea di spettatori, non solo quindi fa rumore o meno a seconda che venga percepito ma il solo fatto di cadere ne cambia la natura. La domanda allora, oltre Berkeley, è: se l’albero non è più quell’albero, che rumore mai avrebbe potuto fare se non fosse caduto nel consesso di coloro che percependolo inevitabilmente ne mutano la sostanza? Esiste cioè un albero originale e di conseguenza un “suo” rumore e non è questo che si deve indagare, quando si fa critica, e non analisi di costume? In un’indagine non conta più saper entrare nella mente del killer che raccogliere incerte testimonianze?
La questione che pone la serie coreana assume allora, al di là del suo scopo originario, il classico thriller con spruzzature k-drama e ambizioni psico, con una protagonista conturbante, che parte intricando la matassa sovrapponendo due linee temporali prima di giungere al catartico finale di consueta truculenza, alla luce del contesto in cui cade, come il famoso albero, altri e ben più interessanti significati. Perché se come dice la poliziotta investigatrice soprannominata “la cercatrice” per le sue doti di paziente ricerca, nel mentre la trama si dipana tra un motel e una casa vacanze complicandosi senza che si intraveda il modo di disbrogliarla, e quindi invitando lo spettatore affamato di compulsività a pigiare sull’acceleratore, per risolvere un caso (clinico più che poliziesco?) è necessario guardare là non dove le cose appaiono ma dove mancano, a partire dal senso dell’onore, e dal relativo senso di colpa, che rende la Corea così diversa dal modo di pensare occidentale, “non è quello che guardo, è l’opposto, non sono le cose visibili a colpirmi, io cerco quello che non c’è, ciò che sembra essere scomparso, qualcosa di mancante”, ecco allora che non è sufficiente vedere una serie tv, a velocità normale oppure in speed watching poco importa, perché ciò che manca è sempre dentro ma anche fuori dal contesto di creazione e di fruizione, e riguarda sia la foresta sia il singolo albero. Perché se è assodato che ogni film diventa altro nella testa di chi lo guarda e ognuno si ricrea il film che vuole, non si può non relazionarsi ad esso, in un’indagine critica, a prescindere dal suo significato originario. Non è perciò interessante per chi indaga la natura di un oggetto artistico sapere cosa quel film è diventato nella sua testa o nella testa di ogni singolo spettatore ma scoprire per quanto è possibile ciò che era nelle intenzioni originarie, e perciò quale albero fosse prima di cadere nel mormorio della foresta compreso a quale velocità si è deciso di farlo cadere.
Non si può prescindere cioè dal fatto che nel vedere un film lo si stia elaborando non alla maniera dei deejay in una versione taylor made cucita su se stessi ma per comprendere le motivazioni di chi quel film ha portato a termine. Fuori dal nostro piccolo mondo autoriferito. Perché tornando allo specifico di The Frog, che in coreano sarebbe In a forest with no one around prima di diventare in italiano Se un albero cade in una foresta, quale versione ad esempio nel titolo rappresenta meglio le intenzioni dell’autore visto che la scelta di Netflix killerizza la versione originale? Se rana deve essere allora non si può che marcare la differenza invece che sull’albero sulla parabola per la quale la rana colpita incautamente da un sasso si senta per ciò colpevole (ed è significativo allora, proprio perché dato per scontato, che sfugga alla versione coreana ciò che invece appare manifesto alla rielaborazione anglosassone e cioè che la cultura coreana abbia un senso dell’onore così sviluppato da sentirsi responsabile anche quando affittando una camera a un serial killer non sapendo che lo sia questo fa una strage nel mio motel) e siano le conseguenze di questa presa di coscienza a causare una serie di effetti negativi. La doppia mancata denuncia di un sospetto omicidio nella linea principale (del titolare della casa vacanze e della poliziotta una volta scoperto l’assassino del serial killer) invece parrebbe molto più colpevole ai nostri occhi di occidentali rendendo inspiegabile l’atteggiamento della poliziotta la quale non arresta nel primo caso la rana (il figlio del titolare del motel poi impazzito e con moglie suicida) considerandola vittima nel mentre si autoassolve per averlo lasciato libero, in barba alla giustizia di cui è rappresentante, indossando i panni del giudice, e quindi incautamente, anch’essa, della rana.
A questo punto la questione posta dal titolo traslato appare meno controversa. Se un albero cade nella foresta e non c’è nessuno, così come se un assassino compie un delitto senza essere scoperto, o se di una serie tv se ne parla per il solo fatto d’essere trasmessa, non è l’atto in sé bensì le conseguenze a determinarne la rumorosità.
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