Doppiati i gialli duri alla simil Chandler e la trilogia del detective del LAPD Loyd Hopkins, James Ellroy prese il largo, tanto tempo fa, inventandosi un prototipo di romanzo noir jazzato, in stile bebop, arrivando a battezzare White jazz il quarto titolo della celebre tetralogia di Los Angeles. Da allora lo scrittore statunitense si è esercitato in un veloce e spericolato white rap tutto suo che dà l’idea di una registrazione one take, producente un testo molto sincopato, fatto di frasette brevi e crivellato di punti, giustificato nella sua forma sbrigativa dall’adrenalina provocata dai temi trattati.
Ecco, il tema. Meglio definirlo al singolare perché Ellroy è uno scrittore monotematico e monomaniaco: il tema è un crimine, un delitto, un fatto controverso di storia patria, considerato emblematico, e quindi da osservare attraverso un prisma affollato di voci e personaggi che lo rendono evidente nei suoi “lati oscuri”. Per Ellroy la violenta trasgressione delle leggi è connaturata alla società malata anzi già purulenta degli United States, popolati da gangster e mafiosi, prostitute e lenoni, sbirri violenti e politici – soprattutto loro – molto corrotti (Ellroy è un autentico qualunquista, pure complottista, ma poi amen, lo si prende così, come se lui fosse davvero così e non avesse invece forgiato il personaggio di se stesso). Il tutto viene shakerato in velocità grazie all’additivo più adoperato dai personaggi narranti, l’anfetamina dei vecchi tempi in cui L.A. era bambina, ma già culla del malaffare e delle luci del cinema, sinonimo di sesso sporco, pagato e sfrenato, dove i “mangiarane intellettuali” si mescolano sinistramente ai “ciucciamicie”…
Va da sé che Ellroy procede a tutta speed (appunto), e andrebbe letto in versione originale, per ritmo e suono, e pure per il tono su cui richiede di sintonizzarsi – è davvero tanto truce e cinico o anche, come capita ai best seller del NYT, divertito dalle sue iperboli e savagely funny quando delira? Certo che l’italiano, lingua polisillabica, lo rallenta troppo anche se da noi ha sempre usufruito di ottimi traduttori – il professor Carlo Oliva, chi se lo ricorda?, o Stefano Bortolussi, che è tra l’altro un poeta, e oggi Alfredo Colitto.
Da parecchio, dicevo, Ellroy ha collegato il suo white jazz o lo ha nutrito con i grandi misteri americani dei secondi anni anta del secolo scorso, focalizzandosi in particolare sulle gesta e sull’assassinio dei due Kennedy – vedi il suo capolavoro, il leggendario American Tabloid del 1995, ampio spartito che orchestra gli ultimi cinque anni di vita del presidente Jack (1958-1963), e che ai tempi venne considerato da noi poveracci come un aggiornamento hard boiled dell’Ulisse di Joyce o di roba similmente sperimentale – il che ha portato lo scrittore losangelino in un campo gloriosamente post modern, sempre in bilico tra la verità della cronaca e la fantasia del romanzo, tra personaggi veri e d’immaginazione, tra assolo creativo e voluminosa documentazione di partenza poi liberamente stravolta.
Tutto questo ritorna quando pensavo che Ellroy fosse ormai spompato, con il suo stile evaporato nella prosa degli imitatori (solo in Italia sono decine). Invece con Gli incantatori (Einaudi), terza predella di una seconda tetralogia di L.A., ci porta con la macchina fotografica interiore di Freddy O., investigatore sudato, scafato, drogato e fuori di testa – per carattere simile ai vecchi megalomani sessuo-sentimentali come il Lee Blanchard della Dalia Nera, gente di cui si legge la fama sullo zozzo periodico Hush Hush prima che finisca definitivamente sparata – ci porta, dicevo, al massimo del voyeurismo mitico e mortuario concepibile, addirittura nella camera dell’appartamento dove giace nuda e morta Marilyn Monroe… Per uno scrittore noir americano è come entrare nel sancta sanctorum di una cattedrale di sesso e celluloide, costruita proprio sotto la collina che porta la famigerata insegna della Hollywoodland.
…the bedtime was hot, hot. I was dexedrined and jugle-juiced. This prowl-and-seek gig eroticized me. I penlashed-flash the bed and saw that blonde-white hair on the white pillow…
Scrittore e lettore fanno indubitabilmente un patto da guardoni. Ma a parte questo: come nella musica e nella letteratura vera – che per il coriaceo Ellroy credo coincida con l’espressione di una Grande Paranoia – il white jazz o il white rap è di molto superiore alla somma delle singole parole, cosa che invece non accade ai cosiddetti giallisti-giornalisti i quali non hanno idea di che cosa sia la poesia mentre ci informano diligentemente dell’accaduto… Certo: Ellroy, che crea nella sua indiavolata e ossessiva vocazione una pagina in cui i fatti veri e presunti diventano parti di un’opera mondo (sic!) su Camelot, qualche volta stecca, divenendo un manierista di se stesso, e può pure essere invecchiato (ha 78 anni) e poco ispirato e procedere ricalcandosi all’infinito, e però io lo seguo lo stesso e per il divertimento che mi dà lo perdono sempre di aver creato i suoi loffi epigoni.
Credit: James Ellroy (52840343037)” by Tracie Hall from Orange County, us is licensed under CC BY-SA 2.0. James Ellroy by ALA – The American Library Association is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.