Questa è la critica di un film, ma ne approfitterò per lanciare una personale crociata contro l’utilizzo delle parole “necessario” e “gioiellino”. Faccio ammenda: con buone probabilità, in passato avrò abusato anch’io di una delle due, magari di entrambe. Siccome però perseverare è diabolico, non solo non lo farò più, ma incomincio a pensare che parte della pigrizia creativa di un certo cinema italiano somigli a quella di noi che ne scriviamo.
Comunque, Vermiglio di Maura Delpero non è il gioiellino descritto qua e là. È solo un film, non brutto, nel quale regna un’aurea mediocritas, con falle evidenti soprattutto nel climax, che non arriva veramente mai, tarpato dall’utilizzo certosino di ogni cliché possibile.
Italia rurale durante la Seconda Guerra Mondiale, nel paesino del titolo, un maestro (Tommaso Ragno) padre-padrone di otto figli e di una moglie eternamente incinta (Roberta Rovelli), è l’Autorità e vorrebbe essere anche l’Autorevolezza, con esiti non sempre felici.
Le giornate sono scandite dai riti del duro lavoro in montagna, tra mungitura delle vacche, panni da lavare, preghiere e penitenze per un Dio che tutto vede e tutto potrebbe punire. Qualcuno ha paragonato Delpero a Ermanno Olmi: non bestemmiamo, visto che stiamo parlando di religione. Anche volessimo ricordare solo le immagini de L’albero degli zoccoli, non le parole, ci troveremmo davanti a una cultura pittorica – Fattori, Caravaggio – che qui latita a favore di cartoline pro film commission.
Vermiglio si focalizza soprattutto sulla vita delle tre sorelle Lucia (Martina Scrinzi), Ada (Rachele Potrich) e Flavia (Anna Tahler), che condividono lo stesso letto, e qui, nelle confidenze e tappe della loro crescita, la regista trova un registro credibile. La loro esistenza scabra, all’insegna del sacrificio e del dovere, viene scombussolata dall’arrivo di un disertore siciliano, Pietro (Giuseppe De Domenico), che s’innamora, ricambiato, della primogenita. La Guerra resta sullo sfondo, nelle donne che hanno perso l’uomo di casa, in quelle che cercano notizie dei figli, nei reduci che tornano diversi, senza più parole. Quelle usate dalla regista, sono in dialetto trentino, per maggiore aderenza alla realtà dell’epoca. Nel cast, anche attori presi dalla strada, come si diceva una volta.
Il film, Leone d’Argento a Venezia, è stato selezionato per entrare nella cinquina dei migliori film stranieri candidati all’Oscar, e francamente la cosa lascia perplessi. È notorio si debba scegliere attraverso complessi ragionamenti circa il potere della casa di distribuzione in America, l’appeal del tema, il genere di chi lo gira – se femminile, in questo periodo aiuta – e altro ancora. Ma restiamo su Vermiglio in sé e per sé: davvero Sorrentino, Comencini, Amelio hanno girato film meno belli, validi, potenzialmente attrattivi?
In quanto all’aderenza all’epoca, il maestro umilia con gelo roccioso la moglie che ha appena partorito, solo perché per la prima volta la donna osa metterlo in discussione davanti ai figli. Lascia però che Lucia viaggi da sola fino in Sicilia, con legittimo sconcerto del parroco locale. Accetta il fatto che sposi uno sconosciuto, senza prima raccogliere informazioni dal parroco locale, come si usava fare allora, nonostante la guerra e i guai con le poste. Neppure si consulta con il suo, di parroco. Si dirà: per farcelo vedere, nonostante tutto, con un lato open mind, wow, è il potere della cultura! In effetti, l’uomo spende i soldi anche per farsi arrivare dischi di musica classica da Milano, “cibo per l’anima”, che altro, sennò? E in quale altro modo dipingere Virginia, la ribelle del paese, se non inquadrandola in groppa a un asinello, un po’ discinta, sigaretta alla mano? In quel momento, confesso, ho temuto che la regista pigiasse l’acceleratore sul côté lesbo tra lei e Flavia, non tralasciando neppure uno dei cliché che altrove utilizza a piene mani. Proprio qui casca l’asinello, non quello di Virginia, ma quello di Delpero: il film sembra fatto a tavolino, senza un guizzo, per avere tutto quel che serve, ma non sazia, non turba, non smuove.