Lavoratori, anche con il posto fisso, ma sempre più poveri. Nella Milano europea (“città del lusso” come la definisce Corriere.it raccontando di quattro nuovi alberghi a quattro stelle) il problema non è la disoccupazione, ma lo stipendio che spesso non è sufficiente per arrivare a fine mese.
È quanto denuncia il rapporto sulle povertà appena presentato dalla Caritas ambrosiana. Dati stilati sulla base delle richieste di aiuto del 2023, quasi 60 mila (+24% rispetto all’anno precedente), giunte ai centri di ascolto coinvolti nella rilevazione (168, +22,6% rispetto al 2022), cui si aggiungono i 3 servizi diocesani SAM (servizio accoglienza milanese), SILOE (servizi integrati lavoro orientamento educazione) e SAI (servizio accoglienza immigrati).
I risultati della ricerca confermano che anche nel territorio milanese l’area della povertà assoluta si va consolidando. Ed è evidente, primo tra gli altri, il fenomeno del “lavoro povero”. Mentre si riducono i problemi di occupazione, ai centri d’ascolto e ai servizi Caritas continuano a crescere le richieste di aiuto di persone che lavorano ma sono sempre più povere, sempre più lontane dalla disponibilità di risorse economiche sufficienti a garantire una dignitosa qualità di vita: tra gli occupati che si rivolgono alla Caritas, denuncia problemi di reddito l’80,9% (era il 77,5% nel 2022).
«Il lavoro povero deriva da un lavoro precario, da un lavoro esternalizzato dalle aziende, che magari sono forti, anche con un welfare all’interno, ma non garantiscono la corretta applicazione dei contratti, la corretta durata, il corretto rispetto dei diritti» è stato sottolineato nel corso della presentazione.
Il rapporto della Caritas ambrosiana conferma poi che le famiglie con figli minori hanno una maggior probabilità di cadere in povertà, anche quelle non numerose. Nel 23,5% dei casi, alle porte di Caritas bussano madri sole (nubili o separate o divorziate o vedove); in quasi 3 casi su 4 le famiglie povere con figli minori sono di nazionalità non italiana.
E proprio riguardo ai migranti, la loro presenza nei centri d’ascolto è salita, a testimoniare che chi dispone di minori reti sociali e capacità di orientarsi nel labirinto delle burocrazie, di meno diritti riconosciuti dalle leggi e, in generale, di minori opportunità, tende a rimanere più stabilmente impaludato nello stagno della povertà e dell’esclusione sociale.
Si rivolgono a Caritas ambrosiana persone di molte nazionalità, con una forte impennata dei peruviani (il 18,5% dei migranti che hanno richiesto aiuto nel 2023, +54,5% rispetto all’anno precedente): a far da detonatore, in questo caso, sono le norme che regolano il diritto d’asilo e in generale gli ingressi in Italia. Norme che, mantenendo rigidi e ristretti i canali d’accesso legittimi, finiscono per espandere l’area dell’irregolarità giuridica e della precarietà sociale ed esistenziale.
Ma anche chi riesce ad acquisire la cittadinanza italiana spesso rimane in povertà: chi era in situazione di disagio prima di divenire cittadino italiano, rischia con forte probabilità di rimanervi impigliato anche dopo.
«Cinquant’anni al servizio e al fianco dei poveri» ha detto Luciano Gualzetti, direttore di Caritas ambrosiana «ci hanno insegnato tante cose. Anzitutto che la povertà è una condizione umana che merita di essere salvaguardata dalla tentazione, sempre strisciante, di farne un motivo di colpevolizzazione di chi la subisce. E poi che si tratta di un fenomeno complesso e multidimensionale: la spia di mutamenti sociali ed economici tra loro intrecciati, che tendono irrimediabilmente a lasciare qualcuno da parte e ad aumentare le diseguaglianze. Non esistono soluzioni semplici a fenomeni tanto complessi: ma occorre che politica, economia e società trovino formule adeguate a rafforzare i redditi di chi lavora, sostenere le famiglie con minori, assicurare ai migranti canali di ingresso regolari e sicuri, il rispetto dei diritti fondamentali, percorsi di integrazione più strutturati e incisivi».
E ancora sui bisogni connessi ai flussi migratori, l’avvocato Alberto Guariso (Associazione Avvocati per Niente), ha detto che il dibattito politico «risente di un’eccessiva categorizzazione dei poveri. Gli strumenti di contrasto della povertà devono invece essere universali, altrimenti si corre il rischio di lasciar fuori, spesso ingiustamente come accaduto con la recente riforma del reddito di cittadinanza, tantissime persone realmente in difficoltà, ma che non corrispondono a requisiti troppo specifici e quindi selettivi. Questa situazione vale in maniera esasperata per i migranti che, anche tramite quote di ingresso sempre più ampie, entrano nel nostro Paese, che del resto ne ha bisogno: di fatto, il 40% tra loro finisce per essere escluso da qualsiasi misura di supporto al reddito e da altre misure di welfare. Ecco quindi che, nonostante abbiano un lavoro, si trovano in una condizione di indigenza».
Maurizio Ambrosini, docente all’Università statale di Milano, ha sottolineato come esistano «varie forme di discriminazione istituzionale rispetto alla concessione di una piena cittadinanza. Alcune scaturiscono da norme scritte per limitare il godimento dei diritti, altre derivano dall’atteggiamento dei funzionari pubblici nei confronti dei migranti. Ciò ha conseguenze sulle condizioni di vita di tante persone: se non si è formalmente e pienamente cittadini, si finisce per subire discriminazioni che accentuano la precarietà delle condizioni di vita». Cosa fare allora? «Bisogna operare potenziando due direttrici di lavoro: l’advocacy, ovvero la tutela legale, e l’associazionismo, immigrato e misto, per l’affermazione dei diritti. La cittadinanza legale non è sufficiente a difendersi dall’impoverimento: occorre promuovere i diritti sostanziali, cioè l’accesso pieno ai diritti sociali e la partecipazione attiva alla vita della comunità. In questo senso, cruciale è il rafforzamento delle alleanze tra italiani solidali e associazioni dei migranti».
A questo link la presentazione del rapporto: https://youtube.com/live/klMDNcGhO24