Sono passati tanti anni da quando uno smilzo e molto amato librino stava nella mia libreria. Un uomo solo di Christopher Isherwood (Guanda 1981), con un desolato Hopper in cover, raccontava la storia di una vedovanza, patita da un uomo di mezza età, professore in un college americano – no, l’Aids non c’entrava, il compagno del professore era morto in un incidente. Il librino era apparso nel 1963 in originale e nel 2009 approderà da Adelphi e su grande schermo nel film molto Kitsch di Tom Ford.
Nel 2015 The Guardian ha incluso A Single Man all’83esimo posto tra le migliori 100 novels di tutti i tempi e lo considera il “supreme achievement” di Isherwood, “as much a work of compressed brilliance as Chopin’s Ballade No 4. It is also, Isherwood said, ‘the only book of mine where I did more or less what I wanted to do. It didn’t get out of control’” (Robert McCrumb).
Forse è vero. Ma ho l’impressione di aver legato per troppo tempo Isherwood a quella formalmente perfetta ma riduttiva immagine di lutto o a quella altrettanto soffocante di “compagno di scuola” di W.H. Auden, senza pensare di incontrarlo da arrogante next big thing della letteratura inglese, quando s’impadroniva di Berlino per scrivere Il signor Norris se ne va o Addio a Berlino, i suoi due sommi romanzi tedeschi – in vece di questi, mi ero fatto bastare dell’altro ottimo Kitsch cinematografico, il celebre Cabaret con Liza Minnelli-Sally Bowles, regia di Bob Fosse.
A colmare le mie lacune ha pensato come spesso accade Adelphi che negli ultimi anni ha rimesso in circolo i capi d’opera di Christopher William Bradshaw Isherwood (1904-1986). Ci pensa soprattutto oggi, recuperando Christopher and His Kind – Christopher e quelli come lui, tradotto da una infaticabile Monica Pareschi, datato all’origine 1976. Dove la precisione del diarismo e l’estro di un’intelligenza nemica di ogni banale vaghezza dominano un memoir quasi troppo denso (di nomi, di vita).
Si trascorre dal 1929 al 1939, dal periodo tedesco molto bohémien vissuto a ridosso dell’ascesa del nazismo in una Berlino prima straordinariamente permissiva e poi fattasi di colpo cupa, fino all’approdo americano, che avviene poco dopo il viaggio in Cina e il Viaggio in una guerra redatto con Auden, sodale e fratello.
L’autobiografia punta – secondo il luogo comune dell’incipit di Addio a Berlino – la macchina fotografica di Isherwood su Christopher stesso: ne esce un autoritratto singolarmentte scritto in prima e in terza persona, mescolate insieme con grazia pari all’efficacia, quasi per evitare o dribblare l’insincerità e l’imbalsamazione della letteratura di memoria, costruendo i più vividi scatti nel gap tra chi era (Christopher) e chi sarebbe diventato (Isherwood) lo scrittore inglese – un espediente già stato ben collaudato in Ritorno all’Inferno (Down There on a Visit, 1962).
Il racconto non incomincia dalla scoperta dell’omosessualità, già assodata, ma sul senso che questa può assumere nell’esistenza di Isherwood. A Berlino, lo scrittore, diviso tra l’angelo e il demonio che sente in sé, mette a nudo in primis la sua appartenenza di classe, che lo invita al conformismo dei privilegiati e indirizza quasi in automatico le sue scelte, anche quelle sessuali, rivolte inizialmente verso idealizzati proletari stranieri.
Il che lo conduce in pellegrinaggio tra i guru del tempo, segnalatigli da Auden, nei locali per gay (l’emozione di oltrepassare la soglia del Cody Corner!), e quindi a patire infatuazioni folli per presunti Wanderer tedeschi (forse semplicemente furbacchioni e piccoli delinquenti) e a trovare asilo nei luoghi più insoliti, come l’Istituto Hirschfeld, che coraggiosamente si batte per la libertà sessuale e finirà con la sua biblioteca al rogo…
Ma Christopher and His Kind è però anche un elenco meraviglioso di personaggi libreschi, un dietro le quinte che li restituisce alla loro realtà umana dopo che hanno servito la letteratura in titoli di successo.
È un romanzo esso stesso, un ibrido che richiederebbe, al termine, un lungo indice di nomi appartenenti alla generazione degli scrittori inglesi degli anni Trenta pur senza dimenticare quelli dei decenni precedenti – sono illuminanti e divertenti, per esempio, gli incontri con E.M. Forster o le frecciate a Virginia Woolf.
Accanto ai poeti “come lui”, come Auden che di solito appare in funzione di serio suggeritore (ma con il quale divide “sesso da ragazzini”), e a uno Stephen Spender troppo espansivo, con cui Christopher rompe e fa pace di continuo, si fa avanti il popolo di Berlino, tra stanziali e expats, padrone di casa divenute poi leggendarie e argute prostitute, neo comunisti e nazisti, ragazzi prepotenti e ragazze dal fascino disarmante, accanto a cui dormire dopo essersi inventati una vita all’avventura, come la Jean Ross passata alla storia col nome di Sally Bowles – Bowles, per caso, ribattezzata col cognome di Paul, pure lui di passaggio.
Naturalmente c’è un prezioso ricordo di Gerald Hamilton, conosciuto come infingardo rappresentante del Times nella Berlino degli anni Trenta, cioè dell’uomo che divide con il signor Arthur Norris, inseguito dai creditori, ben più del parrucchino.
Il portrait di Hamilton si chiude su una recriminazione che Isherwood gli muove, quella di non aver ammesso fino in fondo nel suo memoir Mr Norris and I il tenace bond omosessuale che lo lega allo scrittore. È impossibile, allora, non essere incoraggiati a frugare nella prosa de Il signor Norris se ne va, nelle chiacchiere educate tra due passeggeri che si incontrano per caso su un treno diretto dall’Olanda a Berlino, per trovarli due capitoli dopo a condividere una sfrenata festa di capodanno, proprio quello del 1930, con inserto sadomaso in un losco locale vicino a un cimitero, e appena più tardi finire confusi con loro tra la folla in un comizio di comunisti in terra di Germania…
L’incredibile futilità e arroganza della giovinezza e la disinvolta e incrollabile serietà da romanziere con cui Isherwood l’attraversa, sono il lascito più evidente e godibile delle pagine di Christopher and His Kind, pagine che infine sono scrittura pura, piacere senza specifiche né limite.
Ritrovando un mondo perduto, riconosco adesso lo sguardo del Single Man che qui ritorna sui suoi passi, per riviverli e confermarli. “Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto” diceva appunto Christopher Isherwood in Addio a Berlino. “Io sono ora” scrive nella prima delle tante istantanee di Un uomo solo, svelando l’attività che da scrittore gli è sempre riuscita meglio, e che Christopher e quelli come lui conferma: essere fino in fondo contemporaneo a se stesso. Leggendo la sua prosa, si pensa che gli scrittori di oggi usino, anche male, la fotocamera dello smartphone.
Note a margine. Da Christopher and His Kind è stato tratto il film-tv di Geoffrey Sax, trasmesso nel 2011 da BBC2. Vi compare anche l’orologio con la base a forma di delfino, protagonista di una famosa riflessione: venne prestato alla produzione dal compagno di Isherwood, il pittore Don Bachardy. Il film-tv si può vedere, credo ancora adesso, gratuitamente su YouTube. L’autobiografia di Isherwood era già comparsa in Italia nel 1989 come Christopher e il suo mondo (SE).
(Credit: Christopher Isherwood 6 Allan Warren” by Allan warren is licensed under CC BY-SA 3.0.)