Mi ricordo la prima volta che ho visto al cinema i bifolchi appalachiani, gli hillbillies, oggi assurti all’onore delle cronache, in quanto soggetto sociale disastrato e frustrato in una versione degli Usa spaccati in due e (forse non più) comandati dalle élites delle coste.
Il film, del 1972, è Deliverance – Un tranquillo weekend di paura (brutta traduzione italiana entrata però nel linguaggio comune) di John Boorman. Racconta di bianchi progrediti decisi a fare un bagno di genuinità, una piccola vacanza nella natura incontaminata degli Appalachi. Insultando intanto i locali buzzurri, miserabili e probabili (secondo i villeggianti) portatori di tare genetiche tipiche delle comunità chiuse. Inutile dire che i rappresentanti della cosiddetta white trash (spazzatura bianca, come si suole definirli oggi) tenteranno di mettere sotto, in maniera selvaggiamente indimenticabile, i progrediti cittadini di Atlanta.
Per la cronaca: il tranquillo weekend di paura si svolge lungo l’immaginario (forse per non cercare grane) fiume Cahulawassee, che è in realtà il Chattooga River, e si trova nella contea di Chattooga in Georgia. Cito il toponimo preciso perché gli Appalachi, ovvero il luogo dell’anima hillbilly, rappresentano una molto estesa realtà geografica che tocca ben 18 stati americani.
Il simbolo della similitudine e insieme della incomunicabilità tra le diverse Americhe (ma sono solo due?) è rappresentato dal duetto chitarra-banjo improvvisato da uno dei turisti con un inquietante e forse “ritardato” – si sarebbe detto ieri – ragazzino del luogo: i mondi diversi si toccano per un attimo nella musica improvvisata e travolgente del brano di old time music passato alla storia come Dueling banjos. Ma gli occhi a mandorla del selvatico suonatore di banjo non tradiscono nessuna emozione né tanto meno interesse di contatto con l’altro (devo scrivere “altro” con la a maiuscola?). Come che sia, dopo il film Deliverance, e dopo aver assistito a scene di machismo estremo da parte di indigeni e turisti, culminanti in una scena di sodomia cruda e inusuale per il cinema mainstream, gli Appalachi non saranno più esempio di spazi liberi dove villeggiare, almeno per un poco, lontani dall’oppressiva civiltà…
Quello che colpisce del film è la coda sproporzionata dopo l’insorgere della violenza: si gioca una lunga, quasi interminabile partita tra uomini disperati, incapaci letteralmente di tornare a casa. Il regista John Boorman sembra prendere tempo, quasi che non si rassegni a terminare il film senza avere lasciato ai suoi protagonisti la chance di compiere un atto che li redima – Burt Reynolds ancora senza baffi non può neanche provarci perché ferito gravemente. E così: tutti escono male dal weekend d’incubo, ricchi e poveri, cittadini e montanari, impiegati e white trash, questi ultimi impegnati a nascondere nel bosco le loro distillerie clandestine – noto che erano ancora gli anni dell’alcol, e evidentemente non era comparso l’ossicodone, droga elettiva degli odierni Appalachi.
Ho scritto white trash, usando un termine in origine offensivo che indica “persone di etnia caucasica prive di cultura o di modi quantomeno decenti” (fonte: wiki, non trovo la definizione sul dizionario Treccani). E non posso che notare come l’etichetta sia cambiata di segno in anni recenti, passando da insultante a meramente identificativa, al punto che alcune persone descrivono se stesse come appartenenti alla white trash…
Comunque. Il topos dello straniero che finisce nei guai, per la sua esuberanza colonialista o soltanto per la sua diversità, in una terra a lui sconosciuta in cui approda fiducioso, è un classico di ogni letteratura, dall’antichità dei greci a Kafka e nipotini. Non per caso è battutissimo nell’horror. Mentre guardavo Deliverance, mi sono ricordato di un film quasi coevo, The Texas Chain Saw Massacre – Non aprite quella porta, leggendaria pellicola del 1974 diretta da Tobe Hooper, la quale presenta texani miserrimi e (mi sembra) anche un tema sociale di decadenza economica.
L’apertura dei moderni mattatoi avrebbe contribuito a fare definitivamente ammattire i macellai ostili al progresso, tipo Leatherface e famiglia – se non è così sono giustificato dal fatto che ai miei tempi si tentava di piegare pure il funzionamento di un “Chain Saw Massacre” a uno schema marxista…
Lasciando i redneck texani di mezzo secolo fa e riportandomi in zona Appalachi, segnalo come imbattibile in fatto di terrorizzante rappresentazione del “popolo spazzatura” un altro horror, Wrong Turn: The Foundation (2021), diretto da Mike P. Nelson e scritto dal creatore del noto franchise Alan McElroy.
Tre coppie, che evidentemente non hanno visto Deliverance o erano troppi giovani per intenderne la minaccia, si recano in una cittadina della Virginia rurale per compiere un’escursione sull’Appalachian Trail. Incontrano non solo l’ostilità della gente del luogo ma, celata nel bosco, pure una comunità primitiva e sanguinaria, di barbari sfuggiti chissà come alla modernità… Non serve specificare che horror appalachiani simili a questo – anche per inconfutabile razzismo nei confronti dei miserabili abitanti delle montagne regrediti simbolicamente a cavernicoli – abbondano, basta navigare un po’ su Prime e affini…
Ripensando agli Appalachi come location cinematografica in senso più sociale che evasivo, mi imbatto in un altro film cult degli anni Settanta, The Deer Hunter – Il cacciatore di Michael Cimino, che esce nel 1978 e curiosamente – ma non troppo visto la sua onnipresenza sui set che contano – ha in comune con Deliverance il direttore della fotografia elegantemente “bruciata”, il grande Vilmos Zigsmond.
Ebbene sì, nella finzione, Robert De Niro e i suoi sodali, che incontriamo sul punto di partire per il Vietnam, fanno parte di una comunità di discendenza russa e sono un misto di working class decaduta e spaesata ancorché decorosa e stoica (vedi appunto il personaggio di De Niro) nei suoi riti di resistenza al trasformarsi in “spazzatura”. Per esempio, cito la regola della caccia al cervo fatta con un solo colpo in canna, che precede e prevede il colpo solo in canna della dissennata roulette russa giocata oltremare da Christopher Walken…
Siamo a Clairton in Pennsylvania e il film si apre con scene collettive di fabbrica e il presagio, nel fuoco e nelle scintille degli altiforni, della guerra che verrà. La crisi dell’industria pesante sta trasformando la regione in un pezzo della cosiddetta Rust Belt – la “cintura arrugginita” sita tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, così battezzata negli anni Ottanta del secolo breve.
Non c’è white trash senza Rust Belt secondo i produttori cinematografici o gli editori di narrativa Usa contemporanea. Rivedendo Il cacciatore, progettato e riprogrammato recentemente in versione restaurata, ci si stupisce di come Cimino abbia descritto, almeno nelle scene americane pre-Vietnam, nei primi quadri in cui è diviso il suo capolavoro, una realtà straordinariamente complessa, e che risulta ancor oggi vivamente contemporanea, evitando pittoresche semplificazioni e distorsioni, scorciatoie e cadute di gusto, in una parola, le sempre presenti trappole non del topos ma del luogo comune.
Sia detto al proposito: a sfruttare i nuovi soggetti di una miseria che travalica spettacolarmente il mezzo secolo ci sono in streaming successi quasi caricaturali come il film Hillbilly Elegy – Elegia Americana (2020) di Ron Howard, tratto dall’autobiografia piagnona di J.D. Vance, l’ex bifolco ora vice di Donald Trump, oppure le fortunate serie tv intinte nel fascino della miseria e immolate all’appeal distruttivo all’ossicodone, la droga povera e letale degli hillbillies. Segnalo come migliore di tutte American Rust, grazie al volto stanco e disilluso del poliziotto Jeff Daniels (continua)
Nella foto di apaertura, Dueling banjos in Deliverance (credit: Deliverance by twm1340 is licensed under CC BY-SA 2.0.)