Era il 5 giugno 1975 quando, in uno scontro a fuoco tra carabinieri e brigatisti rossi alla cascina Spiotta d’Arzello, nell’acquese, caddero il carabiniere Giovanni D’Alfonso e la brigatista Mara Cagol, moglie di Renato Curcio. Quando i militari bussarono alla porta di quella casa, i terroristi reagirono sparando e gettando bombe a mano: altri due carabinieri, Umberto Rocca e Rosario Cattafi, rimasero feriti. Uno dei Br coinvolti riuscì a fuggire e di lui non si è mai saputo il nome.
L’avvocato Sergio Favretto, autore dell’esposto presentato nel 2021 insieme a Bruno D’Alfonso, figlio di Giovanni, che ha originato la riapertura delle indagini e portato al rinvio a giudizio di tre Br, è convinto: il processo che prenderà il via il 25 febbraio del prossimo anno farà luce sul responsabile della morte del carabiniere e sui fatti che avvennero alla cascina Spiotta nell’azione per la liberazione di Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima dalle Brigate Rosse.
Cinquant’anni dopo il caso si riapre, con il rinvio a giudizio per differenti imputazioni di tre componenti storici delle Br: sul banco degli imputati Renato Curcio, Mario Moretti e Lauro Azzolini. Secondo l’indagine della Procura, svolta da un team di PM guidato da Emilio Gatti, «alla luce di molti elementi nuovi e credibili», proprio Azzolini sarebbe il brigatista fuggito e ancora senza nome. Da segnalare che Azzolini era già stato prosciolto dal giudice istruttore del Tribunale di Alessandria nel 1987. Ma gli atti sono andati perduti nell’alluvione del 1994.
«Oggi si scrivono le prime pagine di una fase nuova di verità e giustizia e non di storia o sociologia» commenta l’avvocato Favretto. «Ci sono vittime senza giustizia e brigatisti che agirono e colpirono, ma che anche ora non dicono la verità. Almeno dieci brigatisti conoscono la dinamica del sequestro e del conflitto a fuoco».
Sergio, come sei arrivato ad affrontare questo caso?
È stato Bruno, il figlio del carabiniere Giovanni D’Alfonso, a incaricarmi di esaminare l’intera vicenda. Bruno da tempo aveva spontaneamente e con l’ausilio dei giornalisti Simona Folegnani e Berardo Lupacchini ricercato documenti e testimonianze. Mancava ancora l’analisi giuridica del sequestro e del conflitto a fuoco, mancava l’approdo a un vero e proprio esposto. In passato avevo scritto sulla storia dei carabinieri in Piemonte, nel 2018 fui relatore all’intitolazione di una piazza in onore del carabiniere Oreste Leonardi ucciso dalle Br nell’agguato di via Fani e rapimento di Moro. Da anni seguo fatti di terrorismo.
Nella cascina Spiotta venne portato l’industriale Vallarino Gancia, rapito dai brigatisti.
«La cascina Spiotta era un covo Br di grande importanza strategica, per ubicazione e per organizzazione. Al centro di una zona collinare e premontana, a media distanza da Genova, Milano e Torino, aveva armi, munizioni, radio ricetrasmittenti con accesso alle onde radio di Polizia e Carabinieri. Alla Spiotta si rinvennero documenti falsi, piante e mappe di luoghi, un binocolo, molte chiavi falsate, documenti, tute simili a quelle usate nell’assalto al carcere di Casale Monferrato per la liberazione di Renato Curcio, libri di autori che sostenevano gli atti rivoluzionari dei Tupamaros, documenti sulla contestazione in carcere in Italia. La cascina era considerata un rifugio sicuro, luogo dove si organizzava l’attività delle Br. Va ricordato che il sequestro Gancia venne progettato e attuato non solo per ottenere un autofinanziamento all’attività delle varie colonne, ma anche come simbolico atto eversivo contro lo Stato e contro un industriale ricco e esponente della borghesia conservatrice italiana. Fu da subito atto terroristico».
A mezzo secolo dai fatti non si conosce ancora tutta la verità.
«Affrontando questa complicatissima vicenda, mi sono subito apparsi anomali i molti silenzi dei decenni trascorsi. I silenzi degli inquirenti, pur in presenza di un brigatista fuggito e mai individuato se pur certamente colpevole; i silenzi dei brigatisti rossi, molti a conoscenza della dinamica dei fatti e della identità dei protagonisti; i silenzi dell’informazione, poco sensibile al tema; i silenzi anche di alcuni apparati dello Stato che avrebbero certamente avuto motivazione per raggiungere la verità. Sulle Brigate Rosse si sono scritti molti libri ed articoli, anche testi autobiografici e memorialistici; nelle librerie vi sono scaffali interi a disposizione. Sulla Spiotta si è scritto molto poco, si è pubblicato pochissimo, quasi considerando l’argomento un pendio scivoloso e senza reti di protezione. I libri dei giornalisti Simona Folegnani e Berardo Lupacchini Brigate Rosse. L’invisibile (Falsopiano) e Radiografia di un mistero irrisolto (Biblioteka) sono un atto di coraggio. E ammirevole è la determinazione di Bruno D’Alfonso, figlio del carabiniere Giovanni ucciso dai brigatisti quel 5 giugno 1975. Tenace e perseverante nella sua sete di giustizia a fronte di molti no, non so, non ricordo, vicende che si ritenevano vecchie, fatti ritenuti inspiegabili».
Tu come hai deciso di procedere?
«Il mio lavoro è stato quello di guidare una ricerca e una indagine difensiva difficili e un po’ anomale. Abbiamo formalizzato un esposto e richiesto una nuova indagine. La Procura di Torino ha colto la fondatezza dell’esposto e ha subito avviato investigazioni con l’utilizzo di strumentazione scientifica che non c’era nel passato. Se penso alle persone coinvolte e all’impegno profuso nell’indagine, dai funzionari ai pubblici ministeri, dagli agenti di polizia giudiziaria al Ris e al Ros, debbo dire che vi è stato un lavoro corale e ben finalizzato».
Cosa ti aspetti dal processo?
«Il processo e il dibattimento apporteranno molti tasselli di verità, di ricostruzione, di attribuzione di responsabilità per uno di quei gravi episodi che, insieme ad altri, hanno per un lungo periodo provocato vittime fra carabinieri, poliziotti, dirigenti di azienda, giornalisti e magistrati, docenti universitari e politici, giovani e famiglie. Con il rinvio a giudizio e il processo forse verrà accertata l’identità del brigatista rosso fuggito dalla Spiotta, il brigatista che sparò e lanciò le bombe e uccise Giovanni D’Alfonso. Il compendio di indagine, indiziario e probatorio, è ricco di elementi nuovi e certi. A livello documentale, vi è una ricchezza di dichiarazioni, ammissioni, rivendicazioni, dettagli descrittivi, immagini e audio; a livello testimoniale, sono emerse verità e collegamenti fino a oggi mai rilevate.
Sul sequestro Gancia, sul conflitto a fuoco avvenuto alla Spiotta, sulle BR del giugno 1975 si possono aprire squarci nuovi di verità, si possono superare i silenzi di questi decenni e alcune tesi preconcette delle Br circa la compartimentazione delle varie colonne delle BR, per esempio, o alla resa dei due brigatisti, quando invece hanno lanciato ancora una bomba verso il carabiniere che li aveva bloccati. Nel 1975, a pochi mesi dall’inspiegabile liberazione di Curcio dal carcere di Casale Monferrato, non vi era affatto una rigida compartimentazione fra le varie colonne, certamente non in tema di grandi scelte operative come un sequestro, in tema di dotazione di armi e munizioni, in tema di finanziamento, in tema di delicati interventi a vasto raggio come lo fu il sequestro Gancia. Il covo della Spiotta era il rifugio e covo del vertice delle Br e non di una sola colonna. I vertici delle Br hanno sempre ammesso di aver progettato, organizzato il sequestro come forma di autofinanziamento dell’intero gruppo e non solo di una colonna. La guida dell’operazione era accentrata e non distribuita a livello locale. Vi sono prove inconfutabili. Va smontato poi il teorema che sostiene come i due brigatisti, Cagol e il fuggitivo, si fossero arresi. Basta leggere il memoriale, scritto dal brigatista fuggito, ritrovato nel covo di via Maderno a Milano e ci si avvede come il Br fuggito e la Cagol, dopo una resa forse simulata, decisero di lanciare ancora una bomba SRCM cogliendo di sorpresa il carabiniere Barberis per poi tentare la fuga nel bosco. Il carabiniere la evitò. I due Br fino all’ultimo istante colpirono con armi e bombe.
Sono convinto che il processo, nel quale si sono costituiti i tre figli di Giovanni D’Alfonso (Bruno, Sonia e Silvia) e la moglie Rachele Colalongo con gli avvocati Nicola Brigida e Guido Salvini, offrirà una lettura diversa e autentica di quella vicenda e soprattutto rivelerà il responsabile della morte di Giovanni D’Alfonso e del ferimento degli altri carabinieri. La giustizia non va in vacanza e non diventa silente».
- Sergio Favretto, avvocato e storico, è autore di numerosi articoli su Allonsanfan. Li trovate cliccando qui
- Foto in apertura: Cascina Spiotta