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Sandro Veronesi. L’estate che finisce in un qualunque Settembre nero

In Settembre nero (La nave di Teseo), Sandro Veronesi ha scelto un’estate narrativamente utile ai suoi scopi, quella del 1972, per raccontare la storia di Gigio Bellandi, dodicenne appassionato di sport, in bilico tra fanciullezza e adultità.

Mentre il sole batte sulla spiaggia, dal mondo arrivano per lui appassionanti notizie: per esempio, si tiene un sorprendente mondiale di scacchi illuminato dalle mosse geniali di Bobby Fischer, e si svolgono Olimpiadi per forza indimenticabili, incominciate con la corsa alle medaglie di tanti assi – raccolti e studiati da Gigio Bellandi sulle figurine Panini dei Campioni dello Sport – e finite nell’orribile massacro innescato da un attentato terroristico, intanto che sulla riviera tirrenica perdurano nell’aria inquinata dei gossip gli strascichi del caso Ermanno Lavorini.

Veronesi pone subito il lettore di fronte a un potenzialmente piacevole ricatto: “deve” ricordare e raccontarci per filo e per segno tutta l’estate di Gigio Bellandi – e infatti gli dà la parola in prima persona, ma discosto dai fatti, ora che ha sessant’anni ed è divenuto a sua volta padre. Scopo: capire insieme a noi – e noi, sulla carta, emozionandoci con lui – se l’arrivo imminente di una non precisata e misteriosa minaccia o disgrazia, al termine della bella stagione, possa essere evitata o in qualche modo attutita o accettata da parte di Gigio Bellandi senza patire soverchi sensi di colpa. Divenuto traduttore per mestiere, Gigio Bellandi cerca di “tradurre” anche se stesso, trasformandosi in uno degli “eroi normali” della narrativa di Sandro Veronesi, uno di noi, come il padre addolorato di Caos calmo o l’oculista paziente come Giobbe de Il colibrì. Dice di sé il Gigio Bellandi anziano: «Non sono difficile da immaginare perché sono veramente un uomo qualunque: potrei essere quello seduto accanto a voi sull’autobus, o il cameriere che vi porta la pizza, o il vostro farmacista, o il postino, o il prete che vi confessa o l’automobilista che vi manda a quel paese al semaforo. Immaginate uno di loro, per me va bene». 

Ma dunque: Gigio Bellandi, figlio di un fatuo avvocato e di una combattiva donna irlandese dai capelli rosso fuoco, residenti a Vinci e in vacanza ogni anno in Versilia, nell’estate del 1972 si innamora di Astel Raimondi, ragazzina nera vicina di sdraio, figlia di un commerciante ricchissimo e volgare ma col tv color e di una fiera donna etiope. Incantato dalle treccine afro di Astel Raimondi, il ragazzino si divide tra i suoi passatempi per bambini (piste di biglie e sport in televisione) e il desiderio di un bacio che non sa come dare, mentre ascolta ballando freneticamente con Astel Raimondi lp di musica rock.

Il topos dell’ultima stagione in cui siamo stati bambini appartiene a una lista di romanzi pressoché interminabile. Ma l’ambiguità inquieta del “passaggio” non mi sembra approdi – nel buonismo del bonario eroe qualunque di Veronesi – nemmeno a un briciolo di pathos o di nostalgica poesia né tantomeno a sconvolgenti fremiti erotico sentimentali. L’idea di inventare un nuovo lessico per il protagonista in formazione del romanzo – i tic verbali che portano Gigio Bellandi a collezionare e recitare al muro parole evocative, per esempio “muflone” o “Telefunken” – sembra più programmatico che riuscito. La storia intera è imbevuta in un linguaggio tanto scorrevolmente denotativo quanto grigiamente giornalistico, cosicché anche l’elenco insistito dei nomi dei protagonisti sportivi e, diremmo oggi, “mediatici” di quell’estate invece che un mantra salvifico si rivela burocratico nella sua pignoleria cronachistica. È “il frasario della quotidianità”, che rischia di trasformare Veronesi stesso più che in un eroe come tutti in un best sellerista qualunque.

Che la crescita di Gigio Bellandi avvenga per causa di un amore o per una catastrofe, per un bacio o uno sparo, diventa così un puro optional. Ma poi: il colpo di scena finale (doppio) continuamente evocato e rimandato è così telefonato e infine così bizzarro e improbabile che ci porta a pensare di avere perso del tempo a leggere il cahier di dolenza e di speranza di Gigio Bellandi. Siamo a distanza siderale da altre estati di cambiamento, e penso a casaccio all’Agostino di Alberto Moravia, così come a un qualsiasi racconto dell’Ammaniti adolescenziale.

Un’ultima nota. Tutti i ragazzini che stanno crescendo hanno nei romanzi un personaggio in famiglia che fa da outsider e si presenta con un fascino particolare ai loro occhi. Qui incarna la funzione tale Zio Giotti, specie di extraterrestre narrativo planato forse da un altro racconto, la cui vita misteriosa tange quella dei borghesi ma progressisti Bellandi. Lo Zio Giotti è uno strampalato e irriducibile ex resistente (ma potrebbe essere anche un ex garibaldino) e forse dovrebbe colpire anche noi con la sua umanità dolente e fuori tempo massimo già nei primi Settanta. Ma viene malamente fagocitato anch’egli nel finalone quasi giallo in cui Veronesi, come colto da una serie di indecisioni (vorrebbe alimentare la suspense?) sembra non padroneggiare più e non sapere più che farsene delle sue figurine Panini cioè dei perplessi personaggi in campo.

(Credit: File: Sandro Veronesi, 2010.jpg” by Marco Tambara is licensed under CC BY-SA 3.0.)

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