Una Cinepresa parla ed è una buona idea consentirglielo; la Cinepresa, seppure con un solo occhio, ma chissà quanto profondo, “vede” meglio di tutti il film che gira e ciò che sul set le gira intorno.
Essa sa, essendo abituata a frequentare le false famiglie del cinema, composte di parenti serpenti, che per un pugno di giorni sono uniti dal vincolo di una storia da raccontare.
Jonne Bertola, in Fuori Copione (LuoghInteriori), ha fatto bene a inserire la Cinepresa tra i personaggi del romanzo e a farne talvolta il perno della sua storia corale di cinema – di passione per il cinema – e di uomini e donne, di amori, disamori e persino di destini – anche perché il Destino con la maiuscola, come si capisce durante la trasferta parigina della troupe, è un grande regista– di fatue o essenziali rivelazioni esistenziali.
Ecco che arriva, e potrebbe essere la news di un magazine, la bella del nuovo cinema italiano, Stella Bianchi: è stata scelta, quasi a contrappunto, per interpretare una cantante brutta per antonomasia, la cui storia è narrata dal film in fieri: Rosmunda Pisaroni, detta la regina dei contralti, ottocentesca diva (1793-1872) realmente esistita, che preferiva, conscia della propria sgradevolezza fisica, cantare volgendo le spalle al pubblico o nascondendo il viso dietro a una maschera. È brutta di per sé, Rosmunda, e poi per colpa del vaiolo e delle ustioni di un incendio occorso al Teatro Vecchio di Busseto nel 1813.
Ma ha fatto il miracolo. Per esempio, ha ridato verve al regista del film su di lei, che è un uomo navigato, fresco di divorzio e condannato, se non batte i ciak, a una vita “da moribondo”, lui solitamente così abile a filmare l’“oscuro represso” di sé e degli altri. Ora, per la leggendaria e misconosciuta cantante di Piacenza, prediletta di Gioachino Rossini, si riaccende d’entusiasmo.
Ma ecco la Elvi, milanese, responsabile dello script, che ha un figlio fantasma, sparito tre anni fa, e subisce una moderata attrazione per le notti da tirare in lungo e per Damiano dei Måneskin. Ecco la ragazza Anna, molto stereotipata in aspetto fisico e sogni, che vorrebbe fare il cinema o un reality tanto è lo stesso, ma per il momento si accontenta di accompagnare sul set Denise, la sorellina brutta, che fa Rosmunda bambina mentre canta a Piacenza nel coro delle suore.
Tutti dentro e “fuori copione”, nel romanzo che a tratti sembra una commedia brillante di Jonne Bertola, molto mondana e disinvoltamente post modern per la pioggia di citazioni spesso musicali sempre funzionali mai pesanti (da Enzo Carella a Mano Solo), mentre il Copione, anch’egli umanizzato, si lamenta di non essere seguito alla lettera. Maltrattato da varie riscritture e parcellizzato in luoghi diversi, si sente quasi schizofrenico ma alla fine si emoziona per la storia.
Jonne Bertola (si capisce subito) ama il cinema e sa come si fa, il cinema: e qui rende una vivida e nient’affatto scolastica lezione sul modo in cui funziona non tanto un set quanto l’anima, l’interiorità di un set. Che può materializzarsi in un bacio sulle labbra dato dalla truccatrice Lea, nell’imprecazione dell’operatore Mimmo, habitué di Cinecittà, in un verso di Shakespeare beffardamente citato dal velleitario stagista Matteo.
“Fuori copione” nel senso di sorpresi dalla vita: il romanzo non ha niente di ideologico, non si perde in sovrastrutture, è tutto scrittura e ritmo e questo è il suo pregio maggiore, la leggerezza che va oltre l’intelligenza delle cose.
Bastano poche parole per definire una scena; una notte tra due ragazze per imbastire un amore; l’improvviso apparire del sangue su una veste bianca per assistere a una sequenza molto reale – no, mettetevi tranquilli, non c’è nessun delitto, per fortuna non siamo nel solito noir.
Basta un niente per vivere o per illudersi di farlo, Jonne Bertola ha abbastanza saggezza e ironia – e il dono di essere lieve – per descrivere entrambe le situazioni. Come quando nota che il suo regista “…sogna di avere un orgasmo. In realtà si tratta di un modesto episodio di ‘polluzione notturna’”.
In fondo, il racconto dell’esistenza è fatto dei tagli di luce (cioè delle parole giuste) che al cinema formano la storia per immagini. Certo, la vita perde di fronte ai film, perché lì, sullo schermo, si sa quasi sempre come va a finire, nella realtà invece no. Per questo il set di Jonne Bertola, al termine delle riprese, si spopola ma rimane aperto con tutti gli interrogativi sul futuro dei personaggi… Buona lettura!
Post Scriptum: se il romanzo fosse un film non sarebbe né una vecchia commedia all’italiana, né un film indie dei chiacchieroni della scena newyorchese, è più vicino a una pellicola della Nouvelle Vague dalle parti gentili di Truffaut.
- Jonne Bertola, giornalista milanese. Autrice del romanzo Swinging Giulia, di Piacenza (Morellini) e di Di chi è questo corpo (LuoghInteriori)