Sarò schietta: Grand Tour di Miguel Gomes potrebbe rivelarsi un bagno di sangue, da un punto di vista commerciale. È il classico animale da festival, che se gli togli giurati come Greta Gerwig, Lily Gldastone, Nadine Labaki, Piefrancesco Favino, tra quelli che lo hanno premiato a Cannes per la migliore regia, gli levi l’ossigeno, entra in affanno, non ha più da mangiare.
A meno che gli portino un po’ di cibo spettatori molto particolari, in cerca di emozioni insolite e in stretta sintonia con l’inconscio del regista di Lisbona. In quel caso, potrebbe diventare di culto.
L’ispirazione per raccontare la storia di Edward (Gonçalo Waddington), funzionario inglese che nel 1918, in Oriente, scappa dal matrimonio con la fidanzata Molly (Crista Alfaite), gli è venuta dalla lettura del libro di Somerset Maugham Il signore in salotto, tradotto in Italia da Luciano Bianciardi. Lo scrittore britannico narrava i suoi viaggi nell’Asia del secolo scorso, simili ai grand tour che in Italia compivano gli scrittori romantici anglosassoni per vedere da vicino il nucleo artistico e mitologico del quale erano fatte le loro anime.
Se si dovesse giudicare il film dalle sole immagini, silenziando l’audio, soprattutto le voci off, sarebbe favoloso. Una scena su tutte: il treno verso Rangoon deragliato, il protagonista seduto in mezzo alla foresta, un tizio che si fa strada dal finestrino per uscire, donne ieratiche intorno. In bianco e nero, un quadro.
Il problema è che il gioco di Gomes è spesso e volentieri oltre i limiti del solipsismo: passata la prima mezz’ora inizi a chiederti dove ti stia portando, e se alcuni segnali sono evidenti, anche troppo, vedi la metafora abusata delle marionette che raccontano anch’esse una storia d’amore travagliata; il sogno della ruota-giostra (la giostra della vita, ovviamente), la fuga come quintessenza della scoperta di sé; quando invece intravedi una straniante lavatrice moderna sotto a una capanna, capisci che butta male, i piani narrativi e visivi diventano troppi, e l’interesse verso i caratteri protagonisti non è pari alla bellezza delle immagini.
Edward scappa, viaggia in Vietnam, Filippine, Giappone, Cina. La fidanzata lo insegue, ogni volta gli invia un telegramma per dirgli che sta arrivando nel paese dove lui si trova, una stalker allegra che lo costringe a riprendere il cammino, sempre più lacero e stanco, tra l’incredulità generale, perché va bene, si può essere codardi, ma fino a questo punto?
Nel frattempo, Gomes inserisce immagini documentaristiche a colori che aveva girato durante il periodo Covid, a distanza, lui a Lisbona, la troupe in Oriente. Quindi ci sono anche le strade caotiche di quelle città, le mascherine nella folla, tempi moderni (ecco spiegata la lavatrice).
L’immaginario visivo coloniale è reso meravigliosamente, nonostante molte riprese siano state realizzate a Lisbona e in Lazio – il film è infatti sostenuto dal fondo Lazio Cinema International – l’umano però arranca dietro alla natura, alle piante, alle marionette. Può non essere un problema, visto che l’ossatura del film, in teoria, è la storia di un uomo e una donna?
A meno di uscire da questa logica e dirsi che no, il regista soprattutto riflette sul passato coloniale del suo Paese, ci dice quanto sia impossibile abbandonare l’immaginario sul reale e capire il reale così com’è.
Ci dice che il cinema è un territorio dove tutto è possibile, che il cinema può essere elitario. Una dispettosa vocetta interiore ci ricorda però che tra essere per pochi e rischiare di arrivare solo ai parenti stretti, ai critici curiosi e a Greta Gerwig, c’è un confine molto sottile, qui, a tratti, scavalcato con eccessiva disinvoltura.