La passione per il treno mi ha sempre accompagnato sin dall’infanzia. Non so come mi sia venuta: forse perché mio nonno paterno era capostazione, oppure perché nel mio primo lungo viaggio durante la guerra mi sentivo ben protetto, nel confortevole scompartimento dai velluti rossi, dalle distruzioni che osservavo dal finestrino.
Poco più tardi, tornata la pace, ero felice quando con i miei genitori percorrevo in treno i 50 chilometri che mi portavano a Bari. Rimanevo attaccato al finestrino, mi piaceva osservare i boschi di ulivi che sembravano roteare attorno al convoglio.
E poi giunti a Bari, prima di raggiungere la casa dei nonni materni, mentre attraversavamo il ponte sulla ferrovia, mi avvicinavo al parapetto per essere avvolto dal fumo e dal vapore di una locomotiva sbuffante.
Mio padre assecondava la mia passione con i suoi ricordi di gioventù quando viaggiava col fratello Elio dalla Sicilia verso il Nord. I biglietti erano gratuiti e prendevano i treni notturni per risparmiare sugli alberghi. Mi aveva spiegato anche come si leggeva un orario ferroviario.
E io invece di leggere libri di fiabe, mi divertivo a sfogliare il librone dell’Orario ufficiale delle Ferrovie dello Stato col quale preparavo esatti itinerari per viaggi immaginari. Oggi credo non venga più stampato: si è obbligati a usare Internet con tutte le sue regole che non ammettono errori.
Per un ipotetico viaggio a Milano avrei dovuto prendere il Rapido Lecce-Milano che non fermava a Barletta ma a Foggia. Quindi sarei salito un’ora prima su di un accelerato per quella stazione.
Mi divertivo anche a studiare itinerari più complessi come raggiungere Sondrio o Domodossola o Chambery al di là del Frejus. Segnavo con la matita i percorsi su una grande carta geografica dell’Italia. La morale fu che alle elementari in geografia prendevo sempre 10.
Ero entusiasta quando dovevo viaggiare nella realtà: andavo spesso a Roma con i miei e a volte dovevamo fermarci alla stazione di Villa Literno (ricordo i babà e le sfogliatelle del bar) e nell’attesa del rapido per la capitale osservavo i locomotori elettrici e diesel che manovravano i vagoni lungo i binari ausiliari.
Preferivo le locomotive col loro sbuffare ritmato ai silenziosi e più moderni locomotori anche se mi piaceva la loro linea.
Poi la gioia nel salire sul rapido che proveniva da Napoli e che percorreva a più di 100 Kmh la “fettuccia”, un rettilineo che, parallelo alla via Appia Nuova, attraversava le ex paludi pontine.
Oggi viaggiare su una Freccia mi è indifferente: la velocità dei 300 all’ora non mi affascina, anzi mi irrita quando il “bolide” è costretto a fermarsi in piena campagna per la comprovata inefficienza di Trenitalia. E mi è successo tante volte.
Eppoi le carrozze di oggi sono scomode, non esistono più gli accoglienti scompartimenti dove i compagni di viaggio parlavano sottovoce e ti chiedevano se “volevi favorire” quando tiravano fuori da un sacchetto profumati panini con la mortadella o la frittata; quando tra sconosciuti ci si scambiava alcune parole che nelle ore si trasformavano in scambi di idee, dibattiti politici e qualche volta in amicizia con promesse mai mantenute di risentirci per telefono.
Oggi le voci che sei costretto ad ascoltare sono quelle dei tanti maleducati che urlano ai cellulari; a sopportare con pazienza gli urti di coloro che percorrono sbandando lo stretto corridoio centrale o le immense valigie che il vicino ha scaricato sulla poltrona attigua alla tua “perché non entrano sugli scaffali portabagagli.”
Incominciai a viaggiare da solo a 14 anni quando da Livorno andai a Roma da uno zio materno. Un viaggio di tre ore e mezzo col Rapido durante il quale mi accorsi della immediata differenza di paesaggio tra la Toscana e il Lazio: mutava il colore dei campi e anche l’aspetto dei paesi. Le costruzioni di Montalto di Castro, nel Lazio, viste dalla pianura le vedevo diverse da quelle degli ultimi paesi della Maremma.
A Roma Termini non trovai nessuno ad attendermi perché mio zio aveva avuto un contrattempo al Ministero dove lavorava. Non mi preoccupai: ricordavo qual era l‘autobus che avevo preso volte precedenti con mia madre, vi salii e scesi al capolinea, in piazza Tuscolo, a due passi dall’abitazione dei miei parenti.
Ricordo di un viaggio a Siracusa dai miei nonni paterni fatto, sempre da solo, nell’estate di tre anni dopo. Il Nord e il Sud erano collegati dal Treno del sole, un direttissimo, poi chiamato espresso, oggi intercity (ma la velocità è rimasta la stessa) che partiva da Torino e passando da Genova, Livorno e Roma arrivava a Palermo in 23 ore e a Siracusa in 21 dopo essersi diviso a Messina in due tronconi. Un altro convoglio, la Freccia del Sud, partiva da Milano per la stessa destinazione passando da Bologna, Firenze, Roma.
Erano i treni ben noti alle migliaia di immigrati che a quei tempi “fuggivano” dalla loro terra per trovare lavoro a Nord e che in estate tornavano a Sud per le vacanze.
Salii sul mio treno, a Livorno, alle cinque del mattino e trovai posto in una carrozza di prima classe – l’anno prima la terza era stata cancellata in tutta Europa – grazie allo sconto sul biglietto per i figli dei dipendenti statali. Le seconde erano gremite. Mi aspettava un viaggio di 16 ore.
Nel mio scompartimento trovai una signora che dormiva distesa sul divano con i braccioli sollevati; un ragazzino occupava altri due posti e io mi adagiai sul terzo lontano dal finestrino.
Scesero a Roma e, comprato il giornale Paese Sera dallo “strillone” che percorreva il marciapiede della stazione, mi misi comodo al finestrino. Nello scompartimento prese posto di fronte a me una giovane francese che timidamente mi chiese se quel posto era libero.
Bien sur, le risposi facendole comprendere che conoscevo la sua lingua (studiata alle scuole medie e migliorata durante i miei soggiorni a Bocca di Magra grazie a Marguerite Duras che mi dedicava una mezz’ora al giorno).
Uscendo da Termini il treno costeggiava i resti di monumenti dell’antica Roma che attirarono l’attenzione della mia compagna di viaggio, Eveline. Mi indicò una costruzione semicircolare e io le dissi che si trattava del Tempio di Minerva Medica, poi le indicai la porta Esquilina e gli Horti Liciani. Mi fece i complimenti, ma non le dissi che tempo prima me li aveva descritti lo zio romano.
Mentre il treno correva lungo l’agro Pontino avevamo parlato dell’Italia, della Francia, di Yves Montand, che non sapeva fosse italiano, di Aznavour di origini armene. Io accennai ai miei studi liceali, lei mi disse che fresca di studi, insegnava alle elementari da appena un anno a Marsiglia e andava a Palermo per poi visitare Agrigento e i suoi templi e rientrare in Francia via mare.
Arrivammo presto a Napoli Mergellina dove corsi a comprare due piccole pizze e due babà. Il treno percorse lentamente la periferia della città rasentando il retro dei vecchi palazzi abbandonati all’incuria con le pareti scrostate, i balconi pieni di cumuli di miseri oggetti che emanavano cattivi odori.
Mi resi conto che spesso i treni svelavano la parte più brutta delle città, gli angoli non visti dalla strada, come fossero segreti delle famiglie che abitavano quelle case. Anche a Milano ricordo che il treno che prendevo rientrando dalla Toscana, prima di arrivare alla Centrale, sfiorava le vecchie case a ringhiera.
Dopo Salerno il treno percorse lentamente sino al tramonto tutta la costa tirrenica della Calabria. Si fermò ad Agropoli, Sapri, saltò Maratea nello spicchio della Basilicata che dà sul mare, Praia a Mare, Diamante, rasentando golfi e spiagge bellissime e deserte dove il turismo di massa non era ancora arrivato.
Con la mia compagna di viaggio fissavamo incantati quel paesaggio ancora incontaminato e reso più affascinante dal sole che calava sul mare.
Altre fermate a Tropea, Gioia Tauro e infine Villa San Giovanni dove, ormai al buio, ci attendeva il ferry boat delle Ferrovie dello Stato ben illuminato che ci avrebbe traghettati a Messina.
I vagoni vennero spinti a bordo in due tronconi, quello diretto a Palermo, l’altro a Siracusa. Eveline lasciò la mia carrozza e si trasferì in quella destinata al capoluogo siciliano. Ma volle restare con me sulla coperta della nave. Prendemmo al bar degli arancini di riso, dei quali ricordo ancora la bontà.
Ci salutammo a Messina: eravamo entrambi tristi e ci scambiammo gli indirizzi pur sapendo che non ci saremmo più rivisti.
Il mio treno proseguì per Siracusa trainato da una locomotiva a vapore. Nello scompartimento salirono due suore che soffrendo per il caldo aprirono i finestrini incuranti del fumo che penetrava nello scompartimento.
Arrivai a destinazione col volto coperto di nerofumo. Alla stazione mi attendeva nonno Sebastiano e con una “carrozza a cavalli” andammo a casa, sul mare, di fronte all’isola di Ortigia illuminata.