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Allonsanfàn
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La Maria Callas di Larraín è più Angelina che Divina

Adesso parlo (canto) io. Pablo Larraín firma con Maria il terzo biopic dedicato a donne icone del Novecento, dopo Jackie e Spencer, e per “La Callas” agli ultimi palpiti, nel settembre del 1977, immagina, finalmente, l’autodeterminazione.

Reclusa nella sua elegante dimora parigina, senza più voce, amore, salute, la soprano (Angelina Jolie) può contare solo sui suoi vestali, i devotissimi domestici Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e Bruna (Alba Rohrwacher) e sulle pastiglie di Mandrax che ingurgita in dosi tutt’altro che omeopatiche.

L’opera lirica, chi ama sa, veleggia sempre in un mare d’improbabilità narrativa, sogno, ridicolo sfiorato con sprezzo del pericolo. Devi immergerti nelle sue acque più profonde, non vedere più la luce del reale, rifiutarlo, per godertela pienamente.

Dunque Larraín e lo sceneggiatore Steven Knight in un certo senso eseguono un compito già scritto, e seguono Callas nei suoi probabili deliri da sostanze psicotrope, un luogo onirico dove tutto è possibile. Che tu possa tentare di recuperare la voce da Divina; che un giovane cineasta di nome, quando si dice il caso, Mandrax (Kodi Smit-Mc Phee) giri un film su di te e ti permetta il viaggio a ritroso in una vita pazzesca; che Onassis (Haluk Bilginer), il tuo amore tossico, come usa dire oggi, in punto di morte ovviamente ti dica che ama solo te.

Peccato che Larraín, regista di per sé lirico, proprio affrontando la lirica diventi ridondante, perda per strada quel che ci aveva regalato con grande efficacia in Spencer, ovvero la sua versione dei fatti, uguale al vero, ma diversa, nuova. Qui, invece, prevale un senso di déjà vu, ché molti passaggi della vita di Maria li conosciamo tutti, e non può davvero bastarci ribadire che la madre cattiva l’ha costretta a cantare e l’amore tossico a smettere di farlo.

Potrebbero venirci in soccorso le immagini, sontuose, specie nelle scene girate en plein air in una Parigi da cartolina, ma ogni tanto l’effetto è quello degli esperimenti lirici per strada, nei luoghi reali dei libretti, vedi una famosa Tosca a Roma, qualche anno fa: a tratti seduttivo, a tratti eccessivamente calligrafico.

Larraín e Knight hanno studiato molto bene tutta l’aneddotica su Callas, e trovano il modo di citare, con efficacia emotiva, anche un famoso episodio raccontato dalla madre-padrona-immaginifica, quello su una piccola Maria che s’affaccia dal balcone di New York per cantare, facendo fermare i passanti, rapiti ad ascoltare il prodigio. Non è certo reato, anzi, mescolare vero e falso, e ci sta anche il riferimento a un presunto bimbo nato dalla relazione con Onassis, lo hanno sfruttato in molti, l’Omero cui sarebbe stato attribuito un cognome fittizio e che riposerebbe in un cimitero dell’hinterland milanese.

Manca però la musica. Già, non sembri un paradosso, se ne sente moltissima, si mettono dischi, si canta, ma si coglie solo in maniera didascalica quanto la musica sia stata davvero il genius loci del paesaggio Maria Callas, la sua vera ossessione. Callas non era (solo) una diva sul viale del tramonto che va al caffè per essere adulata, era soprattutto un’artista che ha trascorso tutta la vita a studiare. Mi ha accompagnata nella visione del film la soprano americana Carole MacGrath, una vita al Teatro alla Scala, uscita dalla sala un po’ annoiata.

Sembra quasi Larraín sappia interpretare meglio donne prive di qualsiasi talento, travolte per caso dalla Storia, piuttosto che una grande artista, che qui s’aggira per casa in vestaglia di lusso, più diva da telefoni bianchi che Divina.

Poi c’è Jolie. Sgombriamo il campo dagli equivoci e lasciamo la parola a Larraín: « A volte senti l’1 per cento della voce di Angelina, a volte il 5 per cento, a volte il quaranta per cento, in un paio di occasioni, non molto spesso, ma succede, ascolti il ​​sessanta o il settanta per cento». Di fatto, Jolie canta solo quando il regista deve rendere la voce della fase calante, “tremenda”, come le sbatte in faccia impietoso un giornalista di Le Figaro. Nulla quindi che non sia normale amministrazione per una brava attrice.

Visto che il lavoro di mimesi totale è stato da lei stessa molto pubblicizzato, lo spettatore è autorizzato a non cercare la versione di Angelina, ma l’Angelina-scimmia che ogni attore può e sa essere, cercarla in maniera chirurgica, e non tutto torna. Parte bene col primissimo piano iniziale, perde molto dopo, fino ad arrivare al paradosso di somigliare un po’ più a Sophia Loren – maledetti occhialoni anni Settanta, labbra turgidissime, viso senza una ruga che sia una – che a Maria Callas.

Maria Callas a 53 anni, diva e preoccupata di salvaguardare la sua immagine sì, ma anche malata, depressa, imbottita di farmaci, e quindi no, non basta qualche filo bianco nei capelli. Almeno nelle scene domestiche, cara Angelina, alla tua figaggine devi saper rinunciare! Quando compare la vera Callas, con struggenti immagini private, si spalanca l’abisso, e avremmo chiesto a gran voce almeno un pochino del meraviglioso naso greco di Maria, dei suoi occhi ardenti (o Ardant, nel senso di Fanny, altra Callas cinematografica).

Un plauso soprattutto a Rohrwacher nei panni di Bruna, presenza discreta e acuta, anche se non si capisce perché, persino quando pranza in cucina con l’italiano Ferruccio, parli in inglese. Le incongruenze di questo tipo sono molte, anche il francesissimo medico Fontainebleau (Vincent Macaigne) si esprime in un inglese con accento quasi russo anziché d’Oltralpe. Brava Valeria Golino, piccolo, ma pregnante cameo nei panni della sorella Yakinthi, amara quanto basta, compassionevole senza mai essere stucchevole.

Un appunto sulle troppe bottiglie di Fernet Branca inquadrate da vicino: a tratti sembra di essere in una di quelle commedie anni Settanta dove Manfredi s’accende la sigaretta e la camera indugia sul pacchetto e la scritta Marlboro. Perché?

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