C’è la scrittrice nostrana che, per smarcarsi dal fascino letterario divenuto persino glamour di Sally Rooney, lamenta una idiosincrasia per il gioco degli scacchi, che qui c’entrano un po’, d’accordo, ma sì e no. Così come c’è l’accolito di un pregiato gruppo di Facebook che propone tagli di snellimento al romanzo, 35 righe ogni 50. Cose così. Ma via, ammettiamolo, Sally Rooney non ha deluso – solo perché è diventata molto, molto popolare – chi l’attendeva al varco e non sono poi tante trecento pagine per un lutto e per due o forse tre love stories che coprono un lasso temporale di alcuni mesi alla fine del 2022.
Ma tra tante chiacchiere, basta alzare le spalle, prima di mettere Intermezzo (titolo in italiano, tra scacchistico e musicale e comunque indicante una fase del gioco e una transizione – e che cosa c’è di più godibile e virtuosisticamente giocabile nella letteratura contemporanea di una mossa obbligata o di un momento di passaggio?), prima di mettere, dicevo, Intermezzo (Einaudi) tra i romanzi più belli dell’appena concluso 2024.
Nel libro di Rooney, ci sono almeno due voci formalmente differenti – uno smagliante stream di coscienza fatto di frasi scheggiate, quasi di versi, frutto di rabbia e d’angoscia, e una modalità d’espressione meno sincopata per quanto altrettanto minuziosa nel mostrare inquietudine e ricerca di senso: sono le voci di due fratelli, i Koubek, irlandesi ma appartenenti a una famiglia di origine est europea, alle prese con una complicata situazione sentimentale e in orribile confusione perché hanno appena perso il padre.
Ivan è lo scacchista ventenne di generazione Z (per semplificare), ancora senza arte né parte; Peter il trentenne avvocato quasi rampante ma scivolato, dopo la separazione traumatica dalla coetanea Sylvia, nel rapporto spiazzante con Naomi, ventenne di generazione Z (per semplificare) e per lui imprevedibile, e ciò accade proprio mentre Ivan si innamora inaspettatamente di una “anziana” thirty something separata, Margaret, che per età sarebbe andata meglio per Peter… Voilà, ecco che si gioca, ecco la partita-partitura dell’Intermezzo. Disperatamente funny.
Rooney restituisce la vita interiore dei personaggi con una precisione e un’empatia sorprendenti, e con una verve che val la pena di controllare – nonostante l’impresa del traduttore Norman Gobetti – in versione originale. Qui si incastonano quasi senza parere, tra una vicenda e l’altra – perché in ultima istanza è la scrittura quello che accade veramente – citazioni da Eliot e Larkin, da James e Shakespeare, oltre a un’appropriata contaminazione wittgensteiniana, dove il “Worüber man nicht sprechen kann” sembra riferirsi alla vita stessa e al meccanismo della perdita (vedi la lettura filosofica di Federica Gregoratto, qui). Ospiti di tal calibro sono elencati alla fine da Rooney tra le note e non è casuale che l’ultimo prestito segnalato sia uno snobismo joyciano, “Not a single serious line in it” riferito originariamente dal grande dublinese al soggetto dell’Ulisse. Uno scherzo presuntuoso? Ma no, uno svelamento di poetica piuttosto e una prova di tenuta, con effetto straniante, di un testo che vola alto. Quindi: clap clap signora Rooney, e prima di tutto perché, al di là dei suoi presunti futili acrobatismi – è questa l’accusa davvero infondata -, c’è tuttora bisogno di qualcuno che indaghi e spieghi con qualità di scrittura e sensibilità di interpretazione chi siamo e che cosa pensiamo quando patiamo un lutto oppure ci innamoriamo. Cioè serve qualcuno che scriva un buon vecchio nuovo romanzo. Questa volta, poi, non sembra esserci neanche il rischio che sia autofiction.
Credit: Sally Rooney – Cambridge 2017 by Chris Boland is licensed under CC BY-NC-ND 2.0.